08 ottobre, 2017

Ho fatto una torta.

                                                       ph.TheLittleCorner

Era da un pò che non la facevo, o forse sì, e magari nemmeno me lo ricordo.
Sono giorni che vanno veloci, che a volte stanno fermi immobili e non  ne vogliono sapere di passare. 
Sono giorni di mancanze e di scoperte. Non sempre belle, non sempre piacevoli.
Cambiamenti tanti, tantissimi, oramai ci posso fare una torta anche con loro, si cambia sempre tutto in qesta casa, cambia sempre tutto e troppo e io non so, non lo so se ne ho ancora voglia.

Ho fatto una torta con le cose che avevo nel mobiletto della cucina, che ho sistemato con cura, ho buttato via zafferani scaduti nel 2013 e caramelle gommose diventate di marmo. Le scatole del thè quelle no, ci ho fatto un buchino sotto e sono diventati dei vasi per le piantine. 
Ho fatto una torta con la farina integrale, lo zucchero di canna, la voglia che ho di tornare la me di sempre e non questa che sono certe volte, che non mi sopporto che non vado bene a fare niente, che mi guardo allo specchio e vedo solo i capelli lunghi, e due occhi strani, sono forse così gli occhi di chi ha capito le cose, di chi non ne ha più voglia, di chi ha coraggio? 

Ho fatto una torta con questo sole, con la luna piatta di ieri sera che mi seguiva in autostrada, ma il sole non fa altro che dirmi che ho i vetri sporchi e la luna di ieri, c'è da giurarci, scuoteva la testa e mi diceva Ma Come Fai ad Essere Così Scema.

La sono, sì.
Mi lascio andare, vacillo, barcollo, mi gira la testa e tutto il mondo intorno, e non so più niente, non capisco niente, ed è tutto pasticciato e scolorito e nemmeno si vede più il disegno, e nemmeno vale più, come certi cartelloni delle pubblicità delle sagre di luglio, li vedi a dicembre, Sagra delle Trofie al Pesto e ti viene da vomitare.

Così faccio una torta.
E' una bella domenica di sole regalato, è ottobre fitto, sarà un autunno calmo e io sono qui che lo aspetto, mi troverà coi capelli più lunghi, gli occhi limpidi  di chi ha finalmente capito e una torta tiepida sull'alzata di vetro.

E' sbeccata, ma non fa niente.






28 luglio, 2017

La Piantina dell'Ufficio Postale




S'era di luglio.
Aveva un vestitino a fiorellini piccoli, uno di quelli che lascia scoperte le gambe, che non si stirano, di quel cotone leggero che fa allegria.
Era diretta all'ufficio postale, a spedire a Firenze un pacchettino.

Non era un pacchettino qualsiasi.
Al suo interno infatti, ben protetta da una pellicola e con un fazzolettino bagnato che ne proteggeva il gambo, c'era una piantina. Una piantina viola.

L'Ufficio Postale era un edificio austero, di marmo bianco, con un mosaico bellissimo che spesso si incantava a guardare ma al quale nessuno sembrava fare caso.
Il temporale della notte aveva disegnato un cielo bellissimo, di un blu speciale.
Non che fosse una gran giornata, ma proprio in occasioni come quella, ella aveva messo a punto una strategia. Sorridere.

L'impiegata dell'Ufficio Postale aveva caldo. Forse, nemmeno molta voglia di essere lì. Avrebbe preferito essere che so, al fiume, c'è un fiume bellissimo a pochi chilometri dalla città, con un canyon e una inspiegabile spiaggia di sabbia fine. E' solo un torrente ma ha l'acqua cristallina e i ragazzi di qui ci vanno spesso, a tuffarsi dal canyon e a fare festa. E a guardare le stelle.

la Donna Col Vestito a Fiorellini consegno il pacchetto da spedire. 
- E' leggerissimo, disse all'impiegata distratta. 
C'è dentro solo una piantina.

L'Impiegata si illuminò.
- Una piantina? e di cosa?

Niente di illegale, sorrise la Donna, è una pianta viola che fa dei bei fiorellini rosa. Rosa, come i capelli della ragazza alla quale arriverà, e che se ne è innamorata subito. Ora, la pianterà in un vaso  a Firenze e lì crescerà.

L'Impiegata della Posta non aveva mai sentito, fra bollette e francobolli, una storia più bella.
Dietro di lei, una pianta dalla foglie verdi e lucide.
- Anche io faccio questi esperimenti, le disse, la vede questa pianta? l'ho portata io dalla Riviera.
Così dicendo, si alzò e con delicatezza staccò un rametto dalla Pianta Verde.

- Tenga, disse alla Donna, pianti anche questa vicino alla sua pianta viola. Vedrà che soddisfazione.

La Donna col Vestito a Fiori ne fu meravigliata e felice.
 Mai le era capitato di uscire dall'ufficio postale con qualcosa di più che una ricevuta.
Quel giorno, aveva con sè un rametto di foglie verdine che presto avrebbe trovato posto sul suo terrazzo, e già pensava, attraversando al piazza, che tipo di vaso, se quadrato o tondo, e dove l'avrebbe collocata.

E si rese conto che gran parte delle sue piante avevano affrontati lunghi viaggi per arrivare fino a lei. Gliene aveva inviate Alice, dalla Sardegna, aveva trafugato un geranio in montagna, e pochi giorni fa aveva portato con sè un pò di Sicilia sottoforma di piantina del terrazzo di Mari.
E che la stessa piantina viola, capostipite di una vera e propria selva in un' altra casa e in un'altra Isola, era stata raccolta in un giardino abbandonato molti anni prima, a Capri.

Nessuna cosa al mondo succede per caso, ogni sentimento, ogni sorriso, ogni carezza, financo ogni pianto  sanno sempre da dove vengono e hanno sempre un posto esatto dove andare.
E ogni cosa cura e solleva, accarezza e stringe migliaia di persone, e passi e chilometri  e distanze e destini e storie.
Ogni cosa.
Anche le piantine.
Soprattutto quelle regalate, una mattina di luglio, all'Ufficio Postale.






26 maggio, 2017

Ciao, Gelsomino

Gelsomino.
Maiuscolo.
Nome proprio di persona maschile.
Gelsomino.

Così ti chiami.
Non so nemmeno se tu lo sia davvero, un gelsomino, Gelsomino. 
Ma non fa niente.
Non fa mai niente.
A forza di non fa niente, si va avanti così.
Ogni mille NonFaNiente si vince un tostapane. Ne ho 11. Undici.

Gelsomino stamattina mi ha sorriso.
Così rigoglioso e profumato, così bello, nel suo essere tutto ingarbugliato alla grata, così testardo a voler salire lungo il muro, così elegante a voler abbracciare la casina dei Pettirossi, sfitta, quest'anno, perchè hanno preferito il Pino Grande del Prato Di Là.

Gelsomino mi ha sorriso. 
A colazione, una colazione sontuosa stamattina, ci si è concessi una carezza in più, per far naufragare le malinconie sottili di un giorno senza sole, in una tazza bella scelta con cura, di latte di soia che alla fine è buonissimo, ci si abitua a tutto, alle distanze, alle mancanze, ai ritorni e alle partenze, al latte di soia e alle malinconie. E a tutto il resto.

Ma l'abitudine mi fa orrore.
E Gelsomino lo sa.
Per questo, quest'anno ha volto essere diverso, ha voluto essere prepotente con la sua dolcezza, caparbio nella sua carineria, ed è fiorito più che poteva, ancora e ancora, sempre più sù, fin quasi ad arrivare alle finestre della Camera sulle Colline, la più bella della casa, da dove lo spettacolo del Monferrato è qualcosa che non si spiega, che ne sapete voi che avete il mare e i fiumi e i laghi, se non conoscete l'incanto della nebbia vista da qui, le albe immobili di certi lugli, i temporali che illuminano a giorno la Collina, e la neve, spruzzata a caso, e certi autunni rossi e arancio.

Gelsomino mi ha parlato.
Detto che sì, sono iniziati i giorni delle colazioni in terrazza, scalza e scarmigliata, da qui non passa nessuno o quasi e, qualora fosse, difficilmente ti vedono, la Siepe non è stata tagliata, sembra una casa abbandonata da fuori, non fosse per il Pratino tagliato di fresco e per i vasi tutti in fila e le ortensie ancora acerbe.

Detto che da un pò mi vede sorridente anche la mattina presto, qualche volta ancora spersa coi pensieri che mi ronzano intorno come calabroni incazzati, e che io scaccio con un NonFaNiente, come, un altro? sì, in NonFaNiente non sono mai abbastanza.

Brindo a te, Gelsomino, a noi due, che facciamo colazione insieme ogni mattina fino a settembre, fra non molto sarò in qualche mare, ma tu, custodisci i miei pensieri e i miei segreti, così come fanno da sempre il Pratino e le Rose.

Brindo a noi, Gelsomino, fiorisci e fiorisci anche quando fra non molto  sarò in qualche mare, ti racconto tutto al mio ritorno.
E brinderemo di nuovo, tu ed io, ancora con una tazza bella scelta per bene, mai abituati mai, sempre a prendere sempre il bello delle cose e tutto il resto NonFaNiente.
Che mi serve un altro tostapane.

25 aprile, 2017

Ci pensi mai.

                                             

Ci penso sì.
Oppure no, mai.
Cioè, qualche volta.
No, invece. Ci penso sempre.

le vite che passiamo a pensare. A recriminare, ricordare, rimpiangere, immaginare, supporre. O forse, solo per vivere.
pensare, pensare alle cose fatte, da fare, a quelle che si rifarebbero domani, a quelle che invece nemmeno per sogno, a quelli che hai lì e che ti dici Un Giorno o L'altro Lo Farò, che siano cose belle o cose che rimandi perchè non le vuoi fare, le cacci sotto come le cose noiose da stirare, come le cose da piegare e rimettere nell'armadio, la noia proprio.

pensare, pensare, raccontarsi delle storie belle, scrivere dei libri immaginari, da quant'è che devo scriverlo, un libro, e ce l'ho, lo giuro, salvato nel pc, ogni tanto lo riprendo, e lo rileggo da capo e amo così tanto leggere che alla fine so a memoria fin dove l'ho scritto e non mi riesce di continuare, perchè mai, mai mi verrà qualcosa da scrivere all'altezza di quello che ho già scritto, chissà se funziona così anche per gli scrittori quelli veri.

Come quando sistemo la libreria, e mi ci vuole un mese a sistemarla tutta, perchè mi fermo, smetto di spolverare e prendo ogni libro di ci mi sono innamorata, e sono un sacco, e lo sfoglio un pò e lo accarezzo, e lo annuso, per ritrovare la me che ero quando l'ho letto, o per dimenticarmela,non so, e allora resto lì, lo straccio in mano e leggo, sul pavimento, perchè mi piace leggere seduta sul terra, vicino alla libreria stracolma, e leggo per delle mezzore e ciao che alla fine finisco di sistemare.

Ci penso, ci penso sì, immagino sempre le cose che non esistono, era un trucco che mi sono insegnata da sola, lo so che insegnare non è riflessivo, ma è così, l'ho insegnato a me, da ragazzina, sui diciassette anni, la famiglia disintegrata in pochissimo e una città nuova, e nuovi amici, nuovi libri, novo indirizzo, nuova quinta, avrei dovuto fare la quinta D al mio vecchio istituto e invece ho fatto la quinta e basta, ma per far finta di nulla ho scritto QUINTA D lo stesso, sul diario del Maffei a Torino, e nessuno capiva che cosa volesse dire. ma io sì.

Mi sono raccontata ogni genere di storie, inventata vite delle persone che incontravo, sul tipo che vendeva i libri usati in piazza Carlo Alberto, sul lattaio del corso, sulla segretaria del notaio che abitava di fronte a me, le calze coprenti, lo smalto rosa perlato e la piega sempre fatta, nubile e devota al suo notaio burbero, del quale secondo me, era innamorata da sempre. E quelle gonne a pieghe e quelle borse assurde, che hanno ispirato il genere Segretaria Di Notaio, quando mi vesto come non mi piace.

Continuo a pensare e pensare, inventare storie su case abbandonate, su addii alle stazioni durante la guerra, su incontri fra vicini, sulle scale col corrimano di legno nelle case d'epoca, con gli ascensori con le porte doppie, che fanno clang! quando si chiudono, e c'è sempre un cartello di metallo, Vietato Sbattere le Porte, ma nessuno lo rispetta e la vita di quel palazzo è scandito dalle porte dell'ascensore che sbattono.

C'è una casina in fondo alla strada dietro al campo, una casa piccolissima che è in vendita da sempre e che non vuole nessuno perchè troppo piccola, malconcia e  fuori mano. Ci sono passata l'altro giorno tornando dal vivaio e mi ci fermo sempre. Non ha più il glicine, chissà perchè, il cartello Vendesi è scolorito e nemmeno si legge più il numero da chiamare. Meglio così.

Nessuno la comprerà, nella mia mente l'ho già comprata e ristrutturata mille volte, e mille storie ci ho inventato, di chi ci abitava, di chi ci tornava, di chi ci faceva il pane nel piccolo forno che ha sul retro e di quali misteri nasconda il pozzo e quel tiglio e quel piccolo frutteto.

Ho già comprato delle tende di mille fogge diverse, l'aveva vista anche Silvia, ci eravamo dette che l'avremmo comprata per farci le feste, ma quali feste che siamo sempre in mille e non ci stiamo, ma adesso di feste non se ne fanno più, e in mille non siamo più, o forse sì, ma manca lei e allora che feste si devono mai fare.

Così, ci penso, penso a cosa si potrebbe fare in quella casina diroccata, e mi racconto delle storie complicatissime, con intrighi e misteri, è questa la tecnica, raccontarsi storie belle per non sentire la paura, farsi gioielli con le margherite del pratino, anelli preziosi con le gabbiette dello champagne di Natale e conservarli, conservare tutto, i pensieri le emozioni, il cuore che batte fortissimo sotto al lenzuolo, darsi forza, ballare e cantare sempre, anche quando ti siederesti sul pavimento, la testa piegata sulle ginocchia e non vorresti sentire e vedere niente.

è dal niente che nascono le storie più belle.

E chissà se la segretaria del notaio gliel'ha mai detto, che si era innamorata.








16 marzo, 2017

Così, le Fragole.

Dove Sei è un sentimento.
E anche Copriti, e Quando Torni e Vai piano.
O Torna a Casa Che è Quasi Buio.
Oppure, Torna, e basta.

Ed eccomi, alla fine.
Sarà la primavera che devasta, quelle lune tondissime che appaiono dietro la collina, e tutti quei tramonti che mi ostino a fotografare come una quindicenne, chi l'ha detto alla fine che quindici anni non ce li ho per davvero, è un grande privilegio, danna fatta e sempre un pò scema, sempre che canta, che ride forte, che piange altrettanto, che fotografa i fiori, le scie degli aerei, le nuvole, le scarpe, le calze coi brilli, che ne compra a manciate, se rinasco, nasco gazza ladra, o forse la ero, chissà.

Saranno questi giorni che inanello come le collane di perline, come i braccialetti che facevo sul balcone il giorno prima dell'esame di terza media, Non Sarebbe Meglio Se Ripassassi Quacosa? No, Mi Faccio dei Portafortuna. Già scema da allora.
Giorni a volte frenetici a volte lentissimi, su è giù per l'Italia per questo progetto che amo da morire, per questa cosa che ho fatto e che non mi sembra vero mai, per questo sogno potente che non smette di farmi sognare e farmi dire che sì, oltre ai miei figli, qualcosa di buono nella vita l'ho fatto anche io, e che nessuno al mondo ci avrebbe scommesso un centesimo, su di me. Chi vuoi che scommessa su una che fa i braccialetti e sa Dante a memoria e poco le tabelline, che legge fino a svenire e sviene alla frase Devi Fare Una Proporzione.

Saranno i calci in culo. 
Le scommesse fra testa e cuore, i dolori forti di questi giorni ultimi giorni, altri affetti se ne sono andati via, e non persone, ma forse un pò anche, sì, persone col collare che dormivano accanto a me sul divano, che dividevano con me i grancereale a colazione, che sorvegliavano i miei figli con la febbre e mi guardavano con occhi umani quando piangevo in cucina, lo faccio spesso, la cucina è dove si ride,  si fa colazione guardando fuori, si balla intorno al tavolo, si festeggia, si carica la lavastoviglie, si bruciano le zucchine e si piange, ovvio che è così. 

Voglio per me una bella primavera, anche se per me, primavera è maggio,le rose, il ciliegio e i suoi petali effimeri, il pratino verdissimo, le belle sere con l'ora legale, la Vespa.

Voglio per me dei giorni lisci, tiro un bel respiro, di quelli che si fanno prima di fare un salto, saltare un burrone, una pozzanghera, un problemone più grande di me, e di cose più grandi di me ne ho tante e lo so, e qualcuna è tremenda e qualcuna meravigliosa, deciderà il mondo, la vita, il destino, le carte, il destino scritto nelle carte d'imbarco, per farmi credere che la vita va portata in giro, coccolata, lavata e vestita, che si può sentire in paradiso aprendo la finestra e vedendo Lipari, che si può essere felici in un posto pieno di matasse di lana, di foto di pecore e di gente scellerata come te, che si può imparare a fare gli unicorni all'uncinetto e sentirsi Einstein, felice con poco, che è un poco che è moltissimo, con le persone che hai vicino, trovate e ritrovate, con quelle che ti allontanano e quelle che invece senza non ci sai stare, di quelle che hanno bisogno che tu urli per farle capire, perchè il bene voluto non è quello detto, ma fatto e visto. E regalato sempre.

Così, eccomi.
Ho una stilografica nuova col pennino spesso, come piace a me.
Scrivo una lettera, e la scrivo a me, e a tutte le persone che mi dicono Quando Torni.
Sono tornata.
E adesso, con me, tutti un bel salto e saltiamo il burrone.
La primavera, quella vera, è a un salto da qui.






15 gennaio, 2017

La Strana Storia del Gelido Geranio




Stava da sempre sul davanzale.
Aveva cugini anche sul terrazzo, e sulla finestra del bagno blù, quello che guarda le colline.
Stava lì.
Una volta, il Caprifoglio si era innamorato di lui.
Per questo Natale, gli abitanti della casa avevano deciso di avvolgere i vasi con un vezzoso tessuto leggero, tulle candido, e fermarlo con un gran fiocco argentato.

I vasi sul davanzale, insieme alla miseria intirizzita, avevano così un bell'aspetto di festa.

Ma le vacanze finirono.
Venne gennaio e il suo gelo spietato, e la brina, la nebbia, e il ghiaccio e tutto il resto.
Finite le feste, i brusii fino a tarda notte, le stanze tutte occupate in quel delirio caldo di fratelli e sorelle, e cugini e  fidanzate, e di colazioni per venticinque, appena prima del ragù.

Quella sera, erano le ultime valigie ad essere preparate, erano gli ultimi abbracci in ingresso, quelli che si fanno senza dire niente.

Il Geranio del davanzale sapeva tutto.
Sapeva di quale magone, di quale silenzio, di quali parole taciute, di quando si annuisce e non si dice nulla, come a dire, ok, ok, va tutto bene, ma bene non va mai, in questi casi.

Dovevano esserci tutti abituati, gli abitanti della Casa in Collina, uno di qui e l'altro di là, da qualche anno, oramai. Ma a cose così, chi ha provato sa, non ci si abitua mai.

Il Geranio stava zitto anche lui, per solidarietà.
ma fu grato che nessuno avesse tolto dal suo vaso quel tulle candido.

Così protetto, avrebbe sentito meno freddo, avrebbe potuto anche farsi scendere una lacrima piccolissima, che i gerani si sa, sono dei piagnoni, e non amano i cambiamenti in nessuna stagione, figuriamoci in inverno.

Non toglierò quel tulle bianco dai miei vasi, sono così belli che sembrano pacchetti, regali posati lì da chissà chi e non ancora aperti.

Li lascio lì.
Cambiano sempre troppe cose in questa casa, e quelle che posso lasciare come stanno le lascio così, non le tocco proprio, chi l'ha mai detto che non si possano tenere i vasi messi così, ho tolto le lucine, non è abbastanza?

Il tulle poi, è cosa strana.
Sembra fatto di nuvola, sembra fatto di neve.

Questo, poi, ripara dal freddo come una coperta caldissima.
me lo ha detto il Geranio.

E se scalda lui, scalderà anche me.



05 gennaio, 2017

E voglio.

Mi sa che non mi taglio i capelli.
E che cambio colore.
E poi, compro le forcine d'osso come mia nonna, così, quando saranno lunghissimi, farò una treccia e li raccoglierò, come lei.
Ho sempre avuto la treccia, e il fiocco in fondo, fino al sedere.
Poi li ho tagliati di botto.
E la domenica mattina, al coro della chiesa, con quel caschetto, non mi riconosceva più nessuno.
Se non per i denti storti,


Voglio un anno scintillante.
Lo voglio tutto per me.
Mi voglio fare tre maglie diverse.
Una blù.
Voglio scrivere un libro.
Imparare a cucire.
Finire Guerra e Pace.

Voglio valige da fare. E viaggi, brevi e bellissimi.
Voglio capire delle cose.
Imparane altre, tante.
Scordarmi di tantissime.
Voglio entrare in un'altra casa abbandonata, è un pò che non lo faccio.
Voglio ridere tanto.
Annoiarmi anche, qualche volta.
Voglio inventare una favola nuova.
Voglio imparare la volta celeste, sapere il nome delle stelle.
e guardare più film in lingua originale.

Voglio restare sveglia quando c'è il vento e non farmi prendere dalla paura.
Non voglio più averne, di paura. Non c'è motivo.

Voglio correre meglio e di più.
Devo cambiare le scarpe, anche se quelle che ho mi piacciono così tanto, e mi ricordano delle cose belle, sono distrutte e scalcagnate, anche se cambio le stringhe, ma non si tengono le scarpe per ricordo. Men che meno quelle da corsa.

Voglio diventare brava con le piante. 
Curare meglio le rose, che sono così belle, e le ho tagliate troppo tardi e hanno avuto i pidocchi e non me ne sono accorta subito. Che scema.

Voglio, sopra ogni cosa, essere felice.
Non serena, felice proprio.
Voglio che il mio cuore batta sempre forte così, voglio che l'ottovolante dove giro in questi anni non si fermi, non mi piacciono le giostre che vanno in tondo e pianissimo. 
Non mi sono mai piaciute.
Nemmeno quando avevo la treccia fino al sedere.

Così, mi organizzo per questo anno che arriva, ho ben chiaro le cose che voglio.
2017, arriva pure, e mostrami tutte le cose belle che hai in serbo per me.
Non canto più nel coro della chiesa e ho sempre i denti storti.
avrò ancora i capelli lunghi e sarò sempre la stessa.

Sempre.



22 novembre, 2016

Il Bruco Gilberto, che Amava la Nebbia

Da quanto fosse lì, nessuno lo sapeva.
Fu avvistato una mattina, sul mezzogiorno, quando la nebbia di fuori si er aun pò diradata, un pò, nemmeno tanto.

Bello non era.
Di un colore giallino, non era simpatico a nessuno degli abitanti del Pratino, tanto che aveva dovuto traslocare, giorni e giorni di viaggio, sui vasi di miseria del davanzale.
Il viola gli piaceva assai.

Se ne stava lì, accoccolato sulle foglie quasi stecchite della pianta più bella del mondo, quella di quel colore meraviglioso che gli abitanti della csa, soprattutto una, adoravano e mettevano ovunque, in ogni vaso, in ogni casa, ne regalavano talee e piccoli mazzi, ci facevano centrotavola, composizioni e cose.
Di lì a poco, la miseria intirizzita avrebbe lasciato il posto a dei ciclamini candidi o ad alcuni rami sberluccicanti, l''otto dicembre era prossimo e già si studiava come fare.

Il Bruco Gilberto era lì, tranquillo.
Era un bruco di buon cuore, alla fine, raffinato conoscitore di piante e foglie, forse ghiotto di basilico, ma di prove non ce n'erano ed il colpevole della morte del Basilico Rosso non fu trovato mai. Chi l'ha detto che dovesse proprio essere lui?

Il Bruco Gilberto amava la nebbia.
Per questo stava lì, accoccolato sulle foglie, forse dormiva o forse no, nessuno è capace di capire se un bruco dorma o meno, come si fa?  Ma quella mattina, sembrava proprio che ci stesse bene, al freddino e alla nebbia sottile del quasi mezzogiorno.
La nebbia è così bella se la guardi bene, luccica e avvolge, nasconde anche i pensieri più pesanti, e ti mostra solo quello che vuoi vedere davvero. Era questa, la filosofia del bruco.

e nonostante da ogni dove arrivassero cartoline di sole a picco su scogliere e balaustre, il Bruco Gilberto amava quel davanzale e quel vaso quasi stremato, quel paesaggio decadente e un pò magico, che gli faceva pensare che sì, era casa, nonostante tutto. E pur amando tanto quel sole dolce e quel mare azzurro, oggi era bello anche stare lì, nella nebbia.

Amo la nebbia come il Bruco Gilberto.
e amo il mare col sole languido che vi si specchia sopra.

Mi sa che un pò bruco sono anche io.





18 ottobre, 2016

La Leggenda della Cimice Color Smeraldo.




E' questa la stagione delle cimici.
Ingrati insetti, non belli, non utili, non simpatici, non niente.
La cimice c'è ma non lo sai.
Te ne accorgi solo dal ronzio che fa quando decide che è stufa di stare attaccata alla tenda e vuole spostarsi verso il muro, o girare, girare vorticosamente intorno alla lampada del salone.

Solo allora sai che c'è.
Non piace a nessuno, guai a schiacciarla, bisogna prenderla con grazia e accompagnarla fuori, buttarla dalla finestra, ecco, Vai a Ronzare da Un'Altra Parte,

In realtà, la cimice ha capito tutto della vita.

Se ne sta quatta quatta in un posto, pensa e pensa, alle sorti del mondo, ai fatti suoi, al mistero del cosmo.
Pensa anche alla sua vita, bistrattata e odiata com'è dalla moltitudine delle persone, che non vede in lei nulla di buono.

Poi, ad un tratto, decide.

Decide di darsi uno scrollone, decide che stare lì a fare passetti sciocchi sull'asciugamano steso non è che sia così divertente. E allora, si finge farfalla.
Improvvisa un volo, una meta non troppo lontana, ruota velocissima le ali, cerca perfino di cantare, anche se quello che le esce è solo un ronzio fastidioso e insignificante, ma non le importa.
Lei sa volare.
E passa dall'asciugamano al muro, fino alla tenda, e lì rimane, ma durante il suo volo guarda giù e si sente perfetta, ballerina improvvisata e nemmeno tanto capace, guarda il mondo dall'alto e si riempie gli occhi di quel che vede perchè sa fin troppo bene che non durerà per sempre. Guarda giù e sorride.

E quando atterra sulla tenda, pensa alle cose che ha visto durante il suo volo, dal terrazzo alla cucina, e se è di buon umore vola fino alla festa luminosa sulla lampadina e si diverte così tanto che si ubriaca e giragiragira tutto intorno a quella luce, finchè non trova la strada e, stordita, atterra sul divano a pancia in sù e fra sè e sè ride di gusto, e dice Che Bella Festa Che è Stata e cerca di girarsi per bene ma ride troppo e resta lì, a rigirarsi sul divano.

Da lì, qualcuno la prenderà con delicatezza e se va bene finirà fuori dalla finestra. Se va male, giù dal lavandino.

Ma questo, la cimice non lo sa.

Come vorrei, qualche volta, andare volando a una festa e ubriacarmi con la luce della lampadina.
Che m'importa se poi mi buttano dalla finestra.
Starò ridendo così tanto che nemmeno me ne accorgerò.




16 ottobre, 2016

Mi siedo e aspetto.

Aspetto.
Aspetto il sole quando piove, aspetto la pioggia quando non ho voglia di innaffiare le piante, aspetto che si alzi la nebbia, e prima ancora che scenda, perchè mi piace, sono l'unica al mondo forse, ma a me la nebbia piace guardarla, e annusarla e correrci dentro.
Aspetto.

Aspetto che passi, aspetto che arrivi, aspetto che torni, aspetto di partire, aspetto di tornare, aspetto e basta.
Aspetto treni, imbarchi, autobus, aspetto i musi strani delle metropolitane, aspetto la corriera blu che va in città.
Aspetto che l'armadio dell'ingresso si metta in ordine da solo, aspetto che la montagna da stirare sparisca da un momento all'altro, aspetto che i piatti dal lavandino migrino leggeri verso la lavastoviglie.

Aspetto l'inverno e il suo gelo, l'estate e la sua follia, aspetto la primavera e i suoi fiori, l'autunno e le sue foglie, le castagne, la minestrina.

Aspettare è una condizione dell'anima, non necessariamente succede qualcosa, anzi, non succede quasi mai.
Ma aspettare è un verbo bello, pieno di promesse, un tempo sospeso, sono qui ma non è definitivo, sono qui ma è come se non ci fossi del tutto, infatti aspetto.

Qualche volta è divertente. Qualche volta, invece no.

Forse, non è che aspetti qualcosa.
Ma qualcuno.
E quel qualcuno sono proprio io. 

Aspetto me. 
Aspetto di essere più brava, aspetto di imparare meglio, aspetto di cambiare, aspetto la me che vorrei essere e che non sono mai, aspetto forse la me che ero, ma chi può dire che fosse migliore o peggiore, e poi, chi l'ha detto che non è questa, la me che sono.

e' una domenica confusa e stanca già da ora, che è mattina presto e ho buttato lo sguardo fuori dalla finestra e non ho visto niente.
E' una domenica che magari preparo una tavola sontuosa per una colazione meraviglia, con le tazze inglesi e il pano tostato e quelle marmellate buone che mi fanno le mie amiche.
Io la marmellata non la faccio mai. Aspetto la loro.

E' una domenica che mi sembra che tutto sia in disordine e cambiato e nulla al proprio posto ma non è vero, ci sono quelle volte che ti senti insofferente e perfino un pò scema, svogliata e stupida e te ne stai lì, col pigiama a fiori e ti dici che sì, è tutto a posto tranne la cucina, tutto a posto tranne l'armadio dell'ingresso e che brava che sei a raccontarti bugie e bugie, e che brava che sei a ridere quando non ne hai voglia, e che bravissima con lode che sei a dire che va tutto bene, che va sempre tutto bene, che andrò sempre tutto bene, mentre invece sei lì, lì che stai ferma, lì che non sai, lì che non capisci, lì che aspetti.




17 settembre, 2016

Non Mi Fido.


è che nemmeno dell'estate ci si può fidare.
Forse nemmeno dell'autunno.
Che prova e prova, fa tentativi bislacchi di arrivare fin qui, ci prova a spruzzare un pò di nebbiolina sottile, a mettere i brillantini alle ragnatele dell'AceroPiccolo, a inzuppare l'erba del pratino, che è altissima e non ho nessuna voglia di metterci mano. O tosaerba.

Non mi fido di settembre.
Promette promette non mantiene mai.
Ma in fondo, forse le promesse che contano di più sono quelle che non ascolti, quelle che non hanno dietro il TeLoPrometto, anche se è una frase così bella da dire e da ascoltare.

Non mi fido nemmeno di me.
Sono in bambola, direbbe mia nonna, sciabordita, direbbe un'amica di mia nonna, cretina a stecca, direi io.
Sono senza bussola.
Senza cartina.
Senza navigatore.

Vago, sbaglio, ri-vago e ri-sbaglio. Invento, pianifico cose che dopo dieci minuti sono già da cancellare, faccio torte con i NonFaNiente e marmellate di NonImporta.

La cosa grave però, è un'altra.
In questo marasma, in questa tempesta perfetta dove niente è al suo posto e nessuno dove realmente deve essere, forse ho trovato il mio.

 Forse mi sono data una regola su tutte, quella di non averne, di regole, di dare uno spintone forte a tutte le convinzioni che mi sono data in questi anni, e li ho fatti rotolare giù da qualche rupe, da qualche scogliera a picco sul mare, li ho gettati in un canale e fatto in modo che arrivassero fino a dove non lo so.

Ho preso a calci i Devo e ho spolverato i Voglio, ho ricamato Qui ed Ora su uno strofinaccio da cucina, ho fatto un cestino di Sto Bene e l'ho messo al centro del tavolo, e ogni tanto ne mangio uno, e sputo il nòcciolo lontano, perchè in questo sono oro olimpico.

Non so dove mi porterà tutto questo e nemmeno voglio pensarci, adesso.
Voglio fare le cose in fila, una per una, come vengono, come mi arrivano, perchè mai, mai nella vita saranno esattamente come le voglio io, questo è sicuro.
e non voglio pensare.
Voglio fidarmi di questa me un pò cretina, un pò confusa, un pò stordita.
Per essere un pò felice, ogni tanto.

E il fatto che non abbia una cartina, non è così determinante.

Lo sanno anche i sassi che non le so leggere, e vado in confusione e leggo solo bene le metropolitane e i pattern di maglia, e che per il resto, bah.
Qualche volta mi perdo anche col navigatore.
La bussola, carina, sì, con quell'aghetto che gira, ne avete una lilla chiaro?

Sono così, eventuale, possibilista, sospesa, senza strada, con mille progetti, scatoloni con dentro case, case con scatoloni, carte d'imbarco, viaggi interstellari, fasi lunari e mappe del cielo, ecco, anche le stelle le so riconoscere.
Ma nemmeno di loro mi sono mai fidata.
Avevo ragione.





Odore di dicembre.

  Che non è pino, non è neve, non è gelo, non è niente. Non c'è dicembre in questi giorni, non c'è niente del genere, non ci sono le...