
Mi piacciono, i treni. Lo so, sono sporchi e rotti e in ritardo, quasi sempre, e affollati e maleodoranti. Ci andavo a scuola, in treno. Ci ho letto, studiato, cantato, dormito, pianto, riso, pensato e pensato, dondolata dal vagone, come dice Guccini, a guardare fuori, gli alberi, gli orti, le luci nelle case, i panni stesi, le macchine ferme ai passaggi livello, i campi da calcio, le cose che sembrano essere di un altro mondo, non del tuo, che è tutto lì, nel vagone, appunto. Mi piace viaggiare in treno. Mi piace la gente che c'è, le storie che portano in giro, dentro la valigia che si mette sù, dentro le teste che appoggiano sulla stoffa lisa dei sedili, dentro i giornali che è un proprio un'impresa leggere in treno, meglio un libro. Ho viaggiato moltissimo, in treno. Ci viaggerei ancora. Oggi, soprattutto. Andrei alla stazione e prenderei un biglietto, qualunque, direi all'omino dello sportello Faccia Lei, Roma, Parigi, Cinisello Balsamo, Reggio Calabria. E partirei. Mi accomoderei in uno scompartimento semivuoto, aprendo a fatica la porta scorrevole, o in quei sedili tutti in fila, con scritto Trenitalia. Mi siederei e mi lascerei trasportare, guardando fuori, lasciando liberi i pensieri di andare dove vogliono, sui fili e sulle nuvole, al di là. Scapperei, insomma. Succede spesso a molti, di voler andare via, solo per poco, per un giorno o poche ore. Non si può. Per il momento, l'unico treno che sento è quello che mi passa dentro, velocissimo, che non si ferma a nessuna stazione, che fischia e sbuffa e sibila, proprio qui nello stomaco, un treno immaginario eppure così chiaro da ascoltare, che sfreccia così veloce che non riesci nemmeno a vedere le facce di chi ci sta sopra, dove vanno e chi sono e cosa fanno, e a cosa pensano, chissà.