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21 dicembre, 2015

Apposto.

A posto?
A posto.
Anzi, apposto?, tutto attaccato e con le doppie, come mi chiedono i miei figli e le mie amiche su whatsapp.

Apposto, si.
Mi piacciono questi giorni semplici, che piove appena appena, che finalmente fai spese per reggimenti, stili liste di cose da fare, regali per, e tanto altro.

Mi piace che tutto sia così, esattamente com'è, detesto i cambiamenti, e il cielo solo sa quanti ne ho fatti e quante case e quante situazioni, anche quando tutto sembrava consolidato e fermo e dire, aaaah, ok, adesso ci fermiamo, e invece no, zero, tutto da capo, si rifà.

Mi piace che tutto sia illuminato in casa mia, le candele, le cose, il Natale Decostruttivista, come lo ha chiamato l'Architetto ieri sera, che cosa vuol dire lo sa lui soltanto,  in una di quelle sere con le tavole sontuose, coi bicchieri belli e i tovaglioli con le renne, e le bollicine che ti fanno ridere, e dire cretinate ma così felice come lo sei stata poche volte, da qualche mese in qua.

Mi piace quello che ho, quello che ho vicino e quello che ho lontano.
Perchè ce l'ho.

In tutta questa perfezione, trova posto anche una malinconia, una mancanza che si mescola all'allegria, perchè di questa allegria ne faceva parte da sempre, in questo febbrile preparare, i pacchetti di Natale, Passa in Negozio e Stai Un Pò Con Me,  e non c'è giorno che non ci pensi, che non mi manchi così tanto da farmi piangere, da sola da qualche parte, all'improvviso.
Soprattutto in questi giorni di festa e di lucine.

Ho il mio modo personale di essere felice lo stesso, perchè nulla la porterà più indietro, nè a me nè a nessuno.
Sono felice dei miei giorni, piango se ci penso, rido con le bollicine, mi mangio di baci la mia famiglia e gli amori grandi della mia vita.

E il mio è un modo tutto strano, di piangere felice, o di ridere soffrendo un pò 

 C'è un piccolo albero di Natale vicino alla sua fotografia in cucina, nella cornice con l'uccellino che mi aveva regalato qualche Natale fa.

Adesso sì, è tutto a posto.
Apposto?
Apposto.






02 novembre, 2015

Il Vestito di Pizzo.

Non erano gran giorni, quelli.
Il sole sì, una leggerezza sottile, si sorprendeva a cantare sottovoce, riordinando un cassetto, togliendo le foglie secche a tutte quelle piante viola del davanzale, avrebbe dovuto metterle al riparo, non avrebbero resistito al gelo del'inverno.

Erano giorni pesanti, con sforzi giganti per uscirne fuori, e grandi soddisfazioni nel vedere che sorriso chiamava risata, che leggerezza chiamava divertimento.

Era un pomeriggio faticoso, quello.
C'erano ricordi a schiacciarla, una solitudine più marcata, un magone fortissimo, di singhiozzi soffocati, quelli che proprio non trattieni, la certezza che proprio da lì non si sarebbe tornati indietro. La consapevolezza.

Aveva un abito di pizzo nell'armadio.
Lo aveva indossato a una festa, dove aveva ballato e riso, riso e ballato e cantato e riso, e ancora riso, tanto fino alle lacrime, che belle sono le donne che ridono e si sfanno il trucco, e tentanto di ricomporsi mente ancora ridono e ridono.

In quel pomeriggio difficile, ebbe voglia di ritrovare quella risata.
Aprì lentamente l'armadio, quello dei vestiti belli, dei vestiti delle feste, quello più in alto.
Il vestito di pizzo era lì, allineato accanto all'abito da sposa, ai vestitini belli delle comunioni, all'abito nero dei 40 anni.

Lo indossò e si guardò allo specchio. Certo, con le calze a righe, i capelli sfatti e quella faccia grigia da domenica pomeriggio non aveva lo stesso effetto.
Forse, tirava un pò sui fianchi, ma si fece una smorfia, un giro su se stessa, la gonna a ruota volò e volò, improvvisò una danza, una faccia da copertina, un pò da scema.

Immaginò ancora quella volta e quella festa, a chiudere gli occhi ne sentiva la musica, le voci di sottofondo, fotogrammi perfetti, c'era questo e c'era quello. E c'era lei.


Ridicola, nella cabina armadio, coi calzettoni  a righe un pò scesi e quell'improbabile abito di pizzo, finalmente si sorrise, sentendo su di sè un altro sorriso, da Dovunque Fosse.

Il Vestito di Pizzo tornò nell'armadio in alto, quello dei vestiti belli.
Ogni volta che vorrò ritrovarti, lo indosserò.






22 giugno, 2015

Cattiva.



Si riprende piano. 
A passi piccolissimi, uno avanti e tre indietro, poi sette avanti.
 Poi un altro indietro. Il peggiore.

Si fanno cose semplici, cose anche mai fatte, ci si scopre trapiantatrice di erbe aromatiche, di piantine grasse, si riutilizzano vecchi vasi di terracotta, e lattine vuote che non si ha cuore di buttare, dacchè si è ripulito il sottotetto, il garage e pure la cantina e la quantità di cose che è saltata fuori è inimmaginabile, da arredarci altre tre case, per dire.

C’è una sorta di rito a buttare le cose che non servono più, a trovare loro un altro riutilizzo, un altro posto nel mondo, un’altra collocazione. Mentre si tengono stretti ricordi cari, sassi piatti raccolti in quella spiaggia là, e quel pareo coi gechi e quel libro e quel pass. Ci si rende conto di aver vissuto mille vite, di essere stata mille persone in una, rimanendo sempre la stessa, sempre io.

adesso, forse diversa.

Mi sono riscoperta cattiva, in questi giorni, cattiva e arrabbiata. E stanca. A tratti disperata.  Ho placato la rabbia e il dolore pulendo a specchio posti che non ne avevano bisogno, riordinando al millimetro cassetti di cose, buttandone montagne, le carte d’imbarco che ho conservato per anni, le magliette stinte che mi ricordavano cose che non voglio ricordare più, mentre ho stirato con devozione tovagliette un po’ sdrucite, scucite in un angolo, non le ho rammendate perché non sono tanto capace, ricamo con maestria ma non so attaccare un bottone, cucio male e storto, lo so da me.

La cattiveria si manifesta in mille modi, quando butti con forza il vetro nella campana, so che qualcuno ha corso fino in cima a una collina e da lì ha gridato forte, più forte che poteva. Non ne ho il coraggio, ma forse lo farei anche io, se solo riuscissi a stargli dietro a correre.

Faccio cose di una banalità mondiale, dò un significato speciale a queste piantine nuove, a queste lattine tutte in fila sul terrazzo, alcune le terrò, molte le regalerò, ho una fascina di basilico per farci qualcosa, il sole va e viene e nemmeno mi dispiace, è un’estate così  ruvida e crudele che non ne voglio sapere nulla, né di lei né del suo sole, dei suoi gelati, del suo mare. Non ancora, almeno.

Le piantine del terrazzo mi portano un sorriso accennato, non sarò certo io a scoprire il senso della vita, del segreto della morte e del suo significato, di dove vanno le persone quando non ci sono più, ma so che se il piangere ogni tanto un pochino aiuta, so anche molto bene che non risolve un bel niente, e che ti lascia sfatta e sfiancata e con gli occhi pesti, il respiro corto, e una pallottola di carta umida fra le mani.

La cattiveria mi passerà. Non subito.

Così, faccio piantine, studio ricette, disegno golfini colorati per bambini che verranno, mi metterò uno smalto corallo, sabato la festa  ci sarà lo stesso, e la sua foto in cucina, sorridente su Amaranta, fra il libro di Cracco e le tazzine.


12 giugno, 2015

Il Lavandino.



Ci parliamo sempre davanti al lavandino. E’ il posto dove non ci sente nessuno, sono  tutti di là a ridere e a parlare e a raccontare delle cose, che bisogna farne per raccontarne, lo dice sempre Pier. Lo dici sempre anche tu. Che spettegolate, che ridere, che piangere anche, i tuoi libri di ricette, tu che lavi ed io che asciugo ma anche il contrario, DoveTieniQuesto? 

Vicino al lavandino con le piantine aromatiche, la menta, il basilico, il peperoncino no, quello ti è morto subito, e ti è dispiaciuto così tanto. Ma ha resistito più del mio. La tua cucina è sempre stata bellissima, design puro e tocchi di grazia, la tua. Le tovaglie a pois, la cura che metti nella scelta delle cose, ho imparato tanto da te, i tovaglioli così, i piatti viola che metti sempre quando vengo qui. Parliamo sempre tanto, metti su cene per 10 in 5 minuti, con Luisa è sempre stata una tua specialità.

Sono qui ancora, davanti al tuo lavandino.
C’è uno dei mille strofinacci che ti ho ricamato io, mi tieni vicino anche se non sono qui, e che colpo è stato, vederlo, per me.
E quante cose, quanti pensieri, quanti bambini, quanti ragazzi,  le pizze, i viaggi, Eurodisney ma quante volte, ce n’era sempre uno in più, ogni volta. E il mare, Londra, le caldarroste, i picnic di ferragosto, la neve, i capodanni, e il mare, quanto mare, e quella festa di domenica. Domenica prossima.

La tua casa è silenziosa.

C’è un uomo distrutto, un ragazzo che piange, una ragazza che si fa forte.
Manchi tu.
Ognuno si aspetta di vederti entrare dal cancello, i riccioli, la spesa, la busta grigia del negozio, che sorridi, luminosa.

E luminosa sei, ma chissà dove, ora, da quando un camion ha schiacciato te, i tuoi sogni, la fede che ora Eugenio, l’amore della tua vita, tiene al mignolo, ammaccata e preziosa. Ancora più preziosa adesso.

Che strada avrai, in che mondo sarai, e perché mai, e dove andrai, e dove sei ora, e come facciamo noi, cosa faremo qui, che nemmeno è ancora vero, che parliamo di te al presente, che sei qui, qui vicino a me, nella tua cucina e io che lavo i tuoi piatti e tocco le cose tue,  trovo tutto questa volta, senza chiederti, perché chiederti non posso, non posso più,  e abbraccio Lorenzo come fosse mio, e tu i fiori alla rotonda, tu che nessuno ti può vedere e io che ti porto le ortensie del tuo giardino, dimmi come fai ad averle così viola, le ho colte stamattina e ci ho legato il banner della corsa di Parigi, dovevi esserci anche tu.

Così, ci lasci qui, tutti, con il cuore muto che cade per terra
Raccoglili tu, Silvia, amica della mia vita di sempre, raccogli i cuori di tutti e portali via, portali con te, ovunque andrai, ovunque sei. 

Mancherà il mio.

Che si è perso nell’acqua dei piatti e scivola giù, fra la schiuma e l’impossibile, giù da questo lavandino.



Odore di dicembre.

  Che non è pino, non è neve, non è gelo, non è niente. Non c'è dicembre in questi giorni, non c'è niente del genere, non ci sono le...