05 giugno, 2006

Colpa del parfait.

Buoni. Delicati. Sofficissimi. Di quelle speciali cremine che si gustano col palato, magari schiocchiandoci la lingua contro, e concludere il magico rito con un mmmmhhh! deliziato. Sono arrivati tutti insieme, all’improvviso, in un cestino colorato, in una giornata di un ponte vacanziero che non abbiamo rispettato. Noi, le Famiglie Numerose, di solito facciamo così. In quelle feste comandate in cui tutti sono in giro a fare code, noi ci si cerca, ci si organizza, e si improvvisa. Restando a casa, ovvio, e restando insieme. Tutto può essere. Un buffet, o 4 teglie di lasagne al forno, apparecchiato per bene, avendo cura di non includere il coltello agli under 4. Di solito ognuno porta qualcosa. Forse una bella macedonia colorata o una crostata di frutta, purchè sia. Il vero strabilio sono stati loro, i Parfait al Caffè. Belli anche da vedere, nei loro bicchierini monodose molto chic, e non poteva essere altrimenti, visto la blasonata provenienza. Fin qui, tutto bene. Ma sono qui a invocare pietà. Ho avuto un week end avventuroso, un sabato sera che, va bene, avevo il pigiama e non volevo più uscire ma nel cuore della notte mi è tornato un figliolo ingessato, dopo un rave party al Pronto Soccorso. Il mio cervello si rifiuta, dopo giorni e giorni di vicende non gradevolissime, di applicarsi, di lavorare, perfino di contare. E ho dimenticato un bicchierino di parfait nel mio frigo. La colpa è stata sua, del parfait. Si è nascosto lì, fra la provola e i pomodorini e non ho restituito debitamente lavato il bicchierino old style. Perdono. Imploro clemenza e comprensione e prometto di non reiterare l’insano gesto. Primo ed unico esempio di rapimento di parfait. Per ottenerne la ricetta, ovvio.

03 giugno, 2006

Ode al pigiama.


Certamente da rivalutare. Non un indumento. Piuttosto, uno status. Il pigiama, in serate come queste, si va a collocare in una scelta ben precisa, una corrente di pensiero, un movimento culturale. Il pomeriggio è stato movimentato da 2 partite di calcio 2? Niente paura. Dopo una serata tranquilla e la pizza alle 19, eccoci a casa. I fanciulli sparpagliati, non un granchè da fare, l'indecisione su come impegnare il lasso di tempo che và da qui al sonno ha un nome: il pigiama. Mettersi in pigiama è una sorta di messaggio subliminare, che tradotto vuol dire, sì, sono ancora in circolazione, ma posso decidere, e la cosa assolutamente certa è che l'ultima cosa che avrei voglia di fare è uscire di nuovo. Che si sappia. Mettersi in pigiama alle 9 di sera è stato visto nei secoli come un peccato mortale. Adesso è l'assoluta controtendenza, considerando l'aggravante del sabato, mentre il resto del mondo si apparecchia da corsa ed esce nel mondo, noi, nella pace del nostro divano, nel silenzio delle mura domestiche o al limite in terrazza, trasgrediamo di un piacere sottile. L'attenzione va ora focalizzata sul modello. Già, perchè nell'immaginario collettivo il pigiama è di flanellona pesante, a colori pastello, magari disegnato a funghetti o piccoli tostapane. Orrore. Il pigiama in questione dovrà essere, tanto per cominciare, di seta o rasatello. Lucidino, ecco. E poi, taglio maschile e colore deciso. Un bel rosso lacca, magari. O un blu Cina. Si è così pronti per un sabato sera molto alternativo, a casa. In fondo, una settimana sulle Montagne Russe va conclusa in un certo modo. E con la seta, è noto a tutti, si va sul sicuro.

Tirarsi fuori.

L'avevo detto, io.
E' un'espressione che non mi piace per niente e che cerco di non dire mai. Inoltre, ha effetti deleteri se viene detta a me. Ma sorvoliamo. Ho passato gli ultimi tre giorni? di meno? di più?,non so, come a commiserarmi. A dirmi, deh, quanto sto male. Ahimè, derelitta, quanto sono sofferente. Tapina, sciagurata, infelice creatura. A darci giù di gocce e pastigline miracolose, sperando di arginare il malessere. In effetti aiutano molto ma il grosso del lavoro lo devi fare da te. Bene, ora mi sono scocciata. E tanto anche. Appartengo all'Associazione per la Protezione e la Diffusione del Vaffanculo Terapeutico. Lo so, lo so, non è bello a dirsi, le regole della buona creanza non lo contemplano, ma, accidenti, ogni tanto è assolutamente obbligatorio. E così, via libera ai Vaffan, così, di getto, veloci e leggiadri, senza pensarci sù, liberatori, asssoluti, volgari il giusto, che fanno bene al cuore, alla mente e allo spirito. Vaf, a chi non ci prva nemmeno a sfangarsela da solo, Vaf, a chi ti guarda come una marziana, Vaf, a chi ce la mette tutta per rovinarti una serenità semplice che hai costruito con anni di culo, ma sì, si può dire anche questo, oggi è anche la festa nazionale della Parolaccia Che Viene Dall'Anima, mica bruscolini. E Vaf, a chi fa le cose esattamente al contrario di come gliele ordini, Vaf a chi non capisce la lingua italiana, Vaf alla SDA Courier che ti hanno perso un pacco e fanno finta di niente, Vaf ai parenti serpenti, Vaf a chi non si fa mai gli affari propri, Vaf alla vicina di casa con l'uccellino e la lavatrice sulla porta da settimane, Vaf ai radical chic, Vaf a chi si crede scienziato e non sa scrivere il suo nome, Vaf alla fodera del divano che si sgualcisce a guardarla, Vaf, a chi ci prova, ogni tanto a farti stare male come un cane e che, caspita, ce la fa benissimo, Vaf a chi ti dice le cose senza guardarti negli occhi. E da ultimo, Vaf, dal cuore, a chi non sa di che pasta sei fatta. Una tosta, ecco. Che farà pure la mammola per un pò ma poi, artigli, bazooka, missili terra aria e magari anche un cannone, provateci solo, coraggio, son qua. Certo, andrebbe meglio un Al Diavolo, e sarebbe un pò più zen. Ma vuoi mettere la soddisfazione?

01 giugno, 2006

Che sian squadrate!


Certo, son problemi. E seri, cara la mia signora. La mano, quest'anno, come sempre, del resto, la dice lunghissima sulla sua proprietaria. Ho già detto la mia sulla cura e pulizia degli arti inferiori, prima di sfoggiare zeppe dorate e sandalini capresi. Ma la mano, anche d'estate, deve avere la sua ribalta, il suo momento magico, la sua bella fetta di attenzione. Ma procediamo con ordine. L'unghia della mano non và in nessun caso mangiucchiata, nemmeno nei momenti più tremebondi della nostra esistenza. Molte impenitenti viziose ricorrono alla ricostruzione, che dona in effetti un aspetto curatissimo a mani in pietoso stato di abbandono al loro bieco destino. Ottima scelta. Ma a chi, come a me, piacciono le cose naturali, ecco che il dover squadrare, limare, dare insomma un aspetto glamourous alla nostra mano, diventa un vero e proprio momento di riflessione profonda. Come? Quanto? E soprattutto, ahinoi, di che colore? Molto semplice. Il non colore sarà in assoluto la nostra bandiera dello stile innato, del fascino e dell'eleganza. E non parlo di trasparente, lo si intenda bene. Parlo di lattiginoso, lunare, stellare. Magari, con l'aggiunta di qualche glitter che raggiungerà il suo massimo di visibilio con la prossima abbronzatura. Niente è più chic di un'unghia curata, squadrata, brillantinata il giusto. I rossi purpurei lasciamoli alle altre, o tutt'al più conserviamoli per un'occasione specialissima. Per le altre volte, Beige Naturel, e non se ne parli più. Completare con un gioiellino discreto, un anello di turchese, magari, portato con discrezione, nonchalance e un tantino di distacco. Per manine laboriose che, è risaputo, quante cose sanno far.

Fragole spiaccicate.


Una vera definizione alternativa, non so se esista. Non è facile. Nel senso che, un individuo in buona salute, con una vita normale, certo non può accollarsi le disgrazie dell'umanità tutta. Guerre e carestie, pandemie e soprusi di ogni genere, brutto da dire, ma non possono essere risolti da noi medesimi, all'istante. Ciò non di meno, ci si sente frullati. Come se un carrarmato si fosse parcheggiato proprio lì, su di noi stesi a pancia in giù. Come se avessero preso il nostro cuore, la nostra testa e il nostro stomaco e lo avessero frullato con un robot da cucina di ultima generazione, che trita-taglia-frulla e impasta, per dirla tutta. Si sospira centinaia di volte, ci si guarda riflessi nelle vetrine, un pò curvi e con l'espressione da fila alla Posta Centrale e si cerca di darsi un tono. Operazione difficile ma non impossibile. Un pensiero alla festa di questa sera, uno spruzzo di mandorlo e un gloss al mandarino. Che con le fragole, lo si sa benissimo, ci sta che è un amore.

31 maggio, 2006

Prima di cena.

Un bel momento. Un pò prima delle 20, tanto c'e ancora luce fino a tardi, l'inverno è cosa lontanissima oramai. Certo, bello non fa, ma per tutt'oggi c'è stata una luce strana di lampo non visto, come un raggio di sole che da un nascondiglio non trovato diceva, sono quì. Fuori, nel prato si gioca a pallone, si và in monopattino, sì, anche sull'erba, che male c'è?, si gioca col cane, si aspetta la cena, in quella serenità intatta che scandisce gli ultimi giorni di scuola. Il liceale tanto sereno non è. Ancora non è chiaro se i suoi pensieri sono turbati da greco e filosofia o piuttosto dalla fanciulla con gli occhiali che sorride nella foto di classe. Non indagherò. Ho cucinato un coniglio alla salvia, oggi và così. Forse arriveranno degli amici più tardi, le notizie di SkyTg24, la partita dell'Italia, magari qualche verbo di francese da ripassare, una comunicazione da firmare, un ricamo nel cestino, qualche pagina di libro. La serata sarà tranquilla, normale, semplice. Da manuale. Meglio, direi.

Variazione in corso d'opera.


Allora, per prima cosa: Kjaretta, Sigrid, Piperita e tutto il Simposio della cucina d'autore, cortesemente, non inorridite. Sono per le cose semplici e non mi vengono neppure tanto bene. Ho già prenotato una serie di lezioni presso ciascuna di voi, abbiate pietà. Si era detto Pollo al Curry. Egli, il Pollo, è diventato Pollo al Curry ai Peperoni, oppure Pollo ai Peperoni con Curry. Insomma, una miscellanea, ecco. L'aspetto è carino, invitante, il profumo anche. Vedremo se sarà gradito. Volete la ricetta? Ecco qua. Ci vuole il pollo, prima di tutto, una cipolla, uno scalogno, un pò di curry, un pò di peperoni gialli e rossi, sale e pepe. Beh, non è chiarissimo, ma visto che non faccio Olivier di cognome, fatevela bastare. Ho altre qualità, riconoscetelo in coro unanime.

Di rose e caprifoglio.

Bello, no? Anche se non è la festa di nessuno, anche se non è domenica, apparecchiare per bene fa bene al cuore. Poi, il pane fresco, un fiore del giardino dentro alla bottiglia della nonna, le tovagliette tricot style trovate ieri all'Oviesse, i piatti con l'anemone...Stamattina mi sono portata avanti. Ho dedicato un pò del mio tempo alla casa, ai miei cassetti con la rivoluzione francese al loro interno, al mio armadio simil saccheggiato. Lavori manuali e inusuali per sgombrare mente e cuore. Sul fuoco sfrigola tranquillo del pollo al curry, farò una pizza e una macedonia per i fanciulli che riedono da scuola fra non molto. Desperate Housewife? A piccole dosi, una volta ogni tanto, ha anche il suo fascino, come dire.

30 maggio, 2006

W il wafer.



Nel 1970 avevo 7 anni. Ero una graziosa bimbetta coi capelli lunghi, la Graziella e sono cresciuta con serie turbe psichiche per non avere mai avuto in dono il Dolce Forno. Son cose che segnano, c'è poco da fare. La merenda, all'epoca, non si sceglieva negli scaffali del supermercato, ma era la mamma a comprarla dal droghiere della piazza. Il wafer ha fatto così il suo prepotente ingresso nella vita dei bambini di allora. Il tempo dei Loacker era ancora lontano, c'erano soltanto due gusti, alla vaniglia e al cioccolato, ovvio, ed erano venduti in pacchettini rettangolari e sottili. Li ho ritrovati, in un discount. All'esorbitante prezzo di 64 centesimi di euro. Son soddisfazioni. Il wafer è beffardo. Gioca d'astuzia. E' un vero protagonista, un battitore libero, una primadonna. Non si può intingere, non si può spalmare, fa tutto da solo. Amministratore unico, il wafer trova il suo vero e assoluto tripudio in una semplicissima operazione che forse ho inventato io e che scuoterà le anime dei più. I puristi grideranno allo scandalo, ma son qui a confessarvi, in questa serata di fine maggio, che la scrivente conserva il wafer in frigorifero. E lo consuma a multipli di due, ben sposando il friabile con la frescura sottile, la morbidezza del ripieno con il rigore del ghiacciatino. Concetto difficile ma non difficilissimo. E di sicuro effetto. Consigliato per tacitare lievi arrabbiature con qualche z, riprendersi da una giornatina niente male, premiarsi un pochino. Male non fa. Alla sola condizione di non leggere le calorie. Il wafer, accidenti, ne ha una cifra vergognosa. Come farebbe ad essere così buono, se no?

29 maggio, 2006

Di mandorla.

Forse è un pò stucchevole. Forse troppo dolce. Forse un tantino appiccicoso. Ma buono, buono, buono. E' il profumo che ho comprato quest'oggi, e che ho eletto Profumo Della Stagione Duemilasei. Mandorlo di Sicilia, Acqua di Parma. Tutto sommato un bel pomeriggio, alla ricerca di un degno regalo per un architetto stiloso, qualche vetrina con l'Amica, incedere ozioso e borse di paglia introvabili ma va bene uguale. Il Mandorlo se l'è cavata bene, ha il grande potere di farti sentire una fettina di torta, una granita, un dolcetto da assaggiare. Sei lì che ti annusi i polsi e l'avambraccio e dice mmmmmh, che buono. Costo dell'intera operazione poco più di 30 euro, e il solito tripudio di campioni e regalie. Un bel programma per la serata, le cose brutte sembrano lontane e, forse, un pò meno brutte, dai. Sospiro, sorriso allo specchio, dopo una mano santa sotto forma di doccia. Gusto mandorla, per forza di cose.

Se telefonando.


Fate cognome e nome di chi ha detto Le Sorprese Sono il Sale della Vita: gli mando un mazzo di fiori. O un vassoio di paste. Lo stesso, figurato, certo, che ho ricevuto io questa mattina, intorno alle 10. Una caramellina dopo un trito di aglio. Una perla fra i sassi. Una pesca vellutata in un cesto di patate. Inaspettata, senza fronzoli, senza richieste specifiche, solo a dire, ho capito, sono qui, qualora.
Da adorare, lì per lì.

Odore di dicembre.

  Che non è pino, non è neve, non è gelo, non è niente. Non c'è dicembre in questi giorni, non c'è niente del genere, non ci sono le...