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25 febbraio, 2019

I Fogli Bianchi.

Scrivo a penna.
Con la stilo, spesso. O con la Bic Cristal. Blu. Sempre blu. 
Ho anche degli inchiostri, viola, arancio e turchese, ma le boccettine sono così belle che li uso pochissimo.
A volte mi è capitato di rimanere ferma e zitta davanti a un foglio bianco, soprattutto se si trattava di numeri. I numeri hanno una logica che non mi appartiene. 
Mai sono stata ferma davanti a un foglio bianco, se quello che dovevo scrivere erano parole, storie, letteratura, parafrasi, cose. Le parole mi affascinano, mi trascinano, mi avvolgono, mi cullano e mi fanno giocare e ridere e suonare. Tutto insieme. I numeri, no.

Ho fogli bianchi davanti a me, qualche volta.
Quando non so cosa dire, o forse lo saprei anche dire ma ho paura.
Quando non so che cosa fare, e vorrei avere al sicurezza di tanti, quelli che sanno tutto, come funziona il mondo, Marte, il Firmamento. 
Ho fogli che lascio bianchi quando le cose mi sembrano così belle che a toccarle le sgualcisci, e le sgualciresti anche se ne scrivessi, e allora, lascio il foglio così com'è.

E immagino.
Invento.
Che non è come scrivere e cancellare subito dopo, resta il buco nel foglio, e tutta quella gomma cancellata, che orrore, la mia compagna di terza elementare, la Stefania, era la nipote del cartolaio e un giorno arrivò a scuola tutta tronfia, aveva una gomma nuova con una specie di spazzolina per liberare il foglio, una volta cancellato. Chissà cosa c'entra.

Lascio i fogli bianchi nella mia vita di prima, e in quella di adesso, prima perchè ho cancellato, adesso perchè ho tante cose belle da scriverci, appena nate, sofferte, sorprese, soffuse. Che belle, le parole con la S.

lascio i fogli bianchi perchè voglio il privilegio di scriverci ogni giorno a mente quello che mi va, quello che mi piace di più, quello che più mi fa contenta. Se non so, se non sono del tutto certa, o semplicemente perchè mi dico MaNonPuòEsserePossibile, allora, non scrivo niente.
Nè in blu, nè in arancio, nè viola, nè turchese.

I miei fogli bianchi sono la parte di me che preferisco, sono la vita, la bellezza, il sole bello di oggi dopo giorni di letto e di stare male, sono il verde di un posto incredibile, sono la calma accesa di una panchina sotto gli ippocastani, sono le scritte sui muri che mi ostino a fotografare, sono le persone che ti dicono GuardaCheCielo e che fanno di un giorno qualsiasi un giorno da dire MaSìChePuòEsserePossibile.

La felicità non si ferma quasi mai.
La contentezza, quella sì.
Ed è quella che mi trovo in tasca, in giorni normali, stropicciata in fondo alla borsa della spesa, fra i biscotti e la liquirizia, che trovo nei miei passi e che si legge nei miei fogli bianchi, in controluce.

Nei fogli bianchi c'è tutto il mondo, Marte e il Firmamento.
Nei posti al sole, nelle panchine fra gli ippocastani, invece, anche.


14 novembre, 2018

Senti.



Senti con gli occhi, con le orecchie, e con le mani. 
Come quando sei al buio e cammini a tentoni, per non sbattere nello spigolo della credenza.

Senti e vedi le cose che accadono, le senti con gli occhi perchè li strizzi forte, per non vederli, sentirli solo,  c'è troppa luce, non ce la faccio a guardare, come quando salgo in alto e non guardo giù, soffro l'altezza, forse ho paura di avvicinarmi troppo al cielo, chi lo sa.
E con le orecchie senti il brusio, la gente, le chiacchiere, i discorsi, le parole, una sull'altra, che rotolano, macigni, sassi, vetri appuntiti e chiodi e coltelli e filo spinato e spilli, e male, male ovunque e sacchi, sacchi si sabbia, sul petto, sulle gambe,sacchi che ti sbarrano la strada e la sabbia che ne esce si infila ovunque, nei pantaloni, nelle scarpe, perfino in bocca e non sai ridere, non lo sai più, e non sai piangere, non lo sai più, urli e basta, gridi e basta e nemmeno respiri e nemmeno ce la fai a fare un suono, e cadi, e cerchi di correre e inciampi, e nemmeno a camminare riesci più, che le stringhe ti fanno inciampare e hai palle di piombo pensatissime legate alle caviglie,  e catene arrugginite, non più i campanellini che hai avuto per 5 anni, quanti erano, un filo viola e sei campanellini, che camminavi e facevi din din din anche d'inverno, anche sotto la doccia, anche nella neve, come in spiaggia, ma la neve non è spiaggia, la neve è gelo, gelo forte che ti squassa l'anima e tu sei lì, a non fare niente, a non sapere fare niente, più niente, a non essere più niente, non so più leggere, non so più scrivere, non ci sono più.

Ho giorni in fila che mi guardano e mi odiano, ho giorni in bagno a vomitare, ho giorni che mi aspettano seduti sul letto quando vado a dormire, per non lasciarmi dormire o per farmi dormire così tanto che mi sembra di morire un pochino, che non posso farlo adesso perchè nemmeno ci riesco, e quanti lo vorrebbero magari, e quanto male, quante ferite, quanti colpi durissimi che non riesco a parare, non ho corazza e non ho elmo, non ho esercito o cavallo, non ho parole nè sentimento, non ho più risposte e nemmeno domande.

Ho solo ferite, lividi e tagli, e occhi gonfi e mani stanche e gambe rigide e mi fa male il cuore.
Il cuore non fa male, cretina che sei, dormi, dormi e muori un pò, accontentale, dormi e non sentire nulla, nè con gli occhi, nè con le mani, le orecchie sì, quelle che sentono le parole e il male sentono ancora da lontano quei campanelli, din din din, senti quella che eri, che non trova la strada, ti hanno ucciso e lo sanno,  la spiaggia è lontana, non ci arriverai mai.









12 ottobre, 2018

A-social


E basta.
Sono stata un'entusiasta dei social. Di tutti i social.
Ho avuto Facebook per 10 anni. Ho incontrato vecchi amici persi, rivisto facce di fidanzati delle medie, e chi non lo ha fatto, compagne di banco, vicine di casa.
Ho fatto volare un'associazione e trovato chi se ne occupasse in tutta Italia.
Ho fatto il Gioco delle Scatole di Latta, il Giorno della Teiera e il Colino Day.
E riso, riso tantissimo.
Pianto anche, qualche volta.
Condiviso notizie belle, bisticciato per opinioni controverse, ma appena appena, con le faccine alla fine, come a dire, non discutiamo per queste cose e proprio qui.
Ho avuto Instagram per 5 anni.
Fotografato torte, libri, candeline, risotti, albe e tamonti e scie di aerei, colazioni su prati e su tavoli con le briciole.
E scarpe.
Fra le foglie, al mare, sul muro di Berlino, in barca, sulle scalette degli aerei.
Quelle foto le ho perse tutte, la mia pagina è stata hackerata da non so chi.
Ho perso tanto.
Ne ho aperta un'altra, ma non c'era più lo stesso gusto. 
Come quando scaldi la minestrina. Che perde ogni sapore possibile.
Solo la pastasciutta è più buona riscaldata. Con la crosticina e il sugo buono.

Mi sono tolta da tutto.
Mi sono tolta dal mondo, da Facebook, da Instagram, tengo Twitter per leggere le notizie, per guardare i commenti a XFactor, per leggere Ester Viola e Vittorio Zucconi.
Sono fuori dal mondo?  No. Ci sono di più. Nel mio.

Non era tutta sta passeggiata di salute, sui social l'odio passa velocissimo, in cinque minuti tutto il mondo può sapere che sei una terrorista, una stronza, una troia, una poco di buono. E una delinquente.
Anche se non è vero. Soprattutto se non è vero.
E ti condannano senza appello, senza poter dire Non è Così, che in fondo è del tutto inutile.

Perciò ho chiuso tutto, salvato le poche fotografie rimaste, di quella vacanza lontana, di quei compleanni, di quel ferragosto con una persona che non c'è più. Tutto il resto l'ho cancellato.

Ho ritrovato me.
Ho ritrovato le Fragole, che nessuno può portarmi via, così come i pensieri, le cose che scrivo,le sensazioni che ho e nessuna è molto bella, da qualche mese in qua. Ma devo guarire.

Ho ritrovato i miei libri, il mio ricamo, il lavoro a maglia quello sempre, la cucina, anche, che non sono bravissima ma mi piace e solo quando sono ispirata faccio cose da primato. E poi, ho una cucina nuova e un bel frigo rosa e uno sgabello che mentre cucini qualcuno può sedersi lì e chiacchierare con te mentre sbatti le uova. E farsi un giro se vuole, perchè lo sgabello ha le ruote.

Ma resta tutto qui.
In questa casa strana, con le mattonelle colorate, i balconi, il citofono e i gelsomini.

Ho ritrovato tempo e serenità, devo guarire e stare bene, soffocavo sotto una montagna di qualcosa che non so definire, che è più di cattiveria, più di infamia, e che mi sembra impossibile che nessuno ci abbia pensato mai, mai una volta.

Ritrovo me, sul divano da dove vedo i tetti delle case, che ho i fili per stendere e una gomma verdina per innaffiare i vasi. Non fotografo niente, non racconto niente se non qui, conservo energie e pensieri per raccontarli solo a me, che ne ho bisogno. Non ricordo a memoria un momento così complicato ma da ogni devastazione, da ogni dolore lancinante, da ogni desiderio di sparire, o di gridare, o di piangere così forte da farti bruciare gli occhi e la gola, deve nascere qualcosa di bello.
Di più bello.
E di reale.

Ho ritrovato il piacere di leggere per non impazzire, il gusto di scrivere per mettere ordine, solo per me, senza filtri, i blog sono passati di moda, come i citofoni e i fili per stendere.
Sarà per questo che li amo già così tanto.

Senza rancore Facebook, senza rancore Instagram.
Tenetevi tutto il bene.
Il male, quello no.
Sarebbe troppo, anche per voi.







10 luglio, 2018

La Collezione di Pastelli Viola.






Colorava il mondo così.
Possedeva una manciata di pastelli viola. Da anni.
Li aveva sottratti agli astucci in disuso dei figlioli alle elementari, ne aveva acquistato qualcuno, insieme alle matite da disegno, alle stilografiche, ai pennarelli, con la punta fine, spessa, media...viola, sempre.
E alle biro, quante biro viola sparse, i Tratto Pen, le penne a scatto.

ma i pastelli avevano un fascino speciale.
Ci colorava tutto, anche quello che colorare non si poteva, o che aveva perso lucentezza lungo la strada, lungo il cammino tortuoso e spesso infido che hanno certe cose

Aveva mano leggera, a colorare. e stava nei bordi. Diligente, iniziava prima dal centro, sempre nello stesso verso per dare omogeneità, e poi ai bordi, piano piano, con attenzione, girava il foglio per essere più comoda, e si fermava di tanto in tanto, storcendo un pò la testa di lato, e allontandosi un per vedere che effetto aveva tutto quel viola tutto insieme.

La Collezione di Pastelli Viola era preziosa, al pari di quell'altra, quella dei Pastelli Dimenticati, che però, erano di tutti i colori.

Colorava e colorava.
Giorni bui per farli più lucidi, giorni belli per farli ancora più lucenti, e case, strade nuove, l'insegna di un piccolo supermercato di città, non moderno, ma con la musica e le cassette di legno piene di insalata vera e non delle buste, e le offerte scritte a pennarello, Albicocche 2 Euro, con la scrittura bella che ti risulta con il pennarello a punta quadrata. Da professionisti.

 Colorava i vasi  per i balconi, e il campanello con i nomi nuovi di zecca,  il mazzo di chiavi sonnecchiava beato in fondo alla borsa, solo una targhetta, viola anch'essa, con il proprio nome, la cerimonia di consegna delle chiavi al resto della famiglia si sarebbe svolta fra qualche giorno. 

Colorava la farmacia, la piazza e la fontana, le mattonelle dell'ingresso e la cassetta della posta.

Coloro di viola queste scatole, queste lenzuola e questi piatti belli del giorno di Natale.
Coloro di viola i grembiulini dei miei figli, quelli col nome ricamato di lato, coloro le scarpe da calcio, le scarpette da danza e i costumi interi da piscina taglia 4 anni.

Coloro di viola il mio abito da sposa, il Monopoli del solaio, i biglietti dei compleanni di persone che non sono più nella mia vita. Coloro di viola gli zaini di scuola, gli sci, le tute di Amaranta, le tesine, i dizionari, la scatola del cucito, e le partecipazioni di nozze delle mie amiche. Che non ci sono più per davvero.

Coloro di viola anche i miei pensieri, che se sono viola sono più belli, ci faccio tutte le sfumature possibili, dal lillà al lavanda, che non è la stessa cosa, proprio no.

E poi, quando la punta è consumata, tempero piano, appena appena, per non sprecare nemmeno un pò di colore e con il merletto che esce dal temperino faccio il vestito di una ballerina che danza e danza sulle punte e gira su se stessa, e la testa non le gira mai, c'è una musica sottile e un palcoscenico immaginario, e coloro, coloro anche fuori dai bordi stavolta, la Collezione di Pastelli Viola la porterò con me ovunque andrò, la chiudo in una scatola, insieme alla ballerina, la musica era un carillon e il vestito solo matita temperata, i carillon non piacciono a nessuno e la ballerina è un pò rovinata, ma ha il vestito da ballo più bello del mondo e allora va bene.






25 giugno, 2018

L'Irrimediabile Sortilegio del Fiore del Cappero


Nasce nei muri
Esplode di foglie tondeggianti e vellutate, belle alla vista e alle carezze.
Nasce nei muri.
Al sole, senza terra, senza acqua, con tanta luce, al sole bello delle Isole dal mare di fuori, le più lontane, le più cariche di storia e si fascino e di case principesche in campagne abbandonate, o in borghi intatti che dall'alto dominano lo Stretto e tutto il blu che puoi immaginare, che i tuoi occhi possono guardare. E comprendere.

E' un fiore elegante ed austero, che non si può cogliere nè conservare, nè farne un mazzolino, nessuna sposa mai avrà fiori di cappero nel suo giorno più bello.

Ha un profumo sottile, a ricordare quello che era, dacchè è il cappero a formare il fiore e non viceversa, cosa credi.

E' dal cappero che viene, bottoncino squisito e prezioso, del quale fiore ne è il bocciolo. Non è il fiore che diventa cappero. Ma il cappero a diventare fiore.

La bellezza esplode sempre,in qualunque modo tu la possa intendere. Se dal muro o dalla terra arsa poco importa.

Come certi amori, come certe vite, come certe storie, il fiore del cappero incanta, in gioco sapiente di colori e sfumature e filamenti viola e corolle candide come ali.

Diventa perciò fiore raro e sconosciuto, che non si coglie e non si trova, o si ritrova poi, fra le pagine di un libro letto in poche ore un giorno di fulmini perfetti in mezzo al mare, oppure accartocciato sul fondo di uno zaino tra la sabbia residua e i sassi verdi trovati sulla riva e conservati, come si fa da sempre, in qualunque mare.

Amo il fiore del cappero che nessuno conosce e nessuno sa, perchè a volte, fiore di cappero mi sento anche io,
Che fiorisco senza acqua e senza terra, col sole e col mare, salvo poi trovarmi accartocciata da qualche parte, ammaccata e senza colore, e i petali candidi sono di un giallo malato e senza forma.
Lasciata lì, sul fondo di uno zaino, in compagnia di sassi di mare che non sanno più che storia raccontarmi per farmi sorridere.

Sono fiore di cappero e cappero salatissimo, sono aiuola disordinata che spunta da un muro, sono storia incredibile raccontata in un aranceto abbandonato, e di storie ne so tante, e tante ne invento per restare viva e non perdermi, e tante ne scrivo per non dimenticarmele, e ho sempre con me un quaderno e una penna, e quando non ne avrò più da raccontare allora sì che sarò persa, troverò il modo, la strada, la forza, i colori, non so.

Intanto, ciao Fiore di Cappero, non ti conoscevo fino a due giorni fa,  dimmi che anche tu hai una storia bella da raccontare.


28 luglio, 2017

La Piantina dell'Ufficio Postale




S'era di luglio.
Aveva un vestitino a fiorellini piccoli, uno di quelli che lascia scoperte le gambe, che non si stirano, di quel cotone leggero che fa allegria.
Era diretta all'ufficio postale, a spedire a Firenze un pacchettino.

Non era un pacchettino qualsiasi.
Al suo interno infatti, ben protetta da una pellicola e con un fazzolettino bagnato che ne proteggeva il gambo, c'era una piantina. Una piantina viola.

L'Ufficio Postale era un edificio austero, di marmo bianco, con un mosaico bellissimo che spesso si incantava a guardare ma al quale nessuno sembrava fare caso.
Il temporale della notte aveva disegnato un cielo bellissimo, di un blu speciale.
Non che fosse una gran giornata, ma proprio in occasioni come quella, ella aveva messo a punto una strategia. Sorridere.

L'impiegata dell'Ufficio Postale aveva caldo. Forse, nemmeno molta voglia di essere lì. Avrebbe preferito essere che so, al fiume, c'è un fiume bellissimo a pochi chilometri dalla città, con un canyon e una inspiegabile spiaggia di sabbia fine. E' solo un torrente ma ha l'acqua cristallina e i ragazzi di qui ci vanno spesso, a tuffarsi dal canyon e a fare festa. E a guardare le stelle.

la Donna Col Vestito a Fiorellini consegno il pacchetto da spedire. 
- E' leggerissimo, disse all'impiegata distratta. 
C'è dentro solo una piantina.

L'Impiegata si illuminò.
- Una piantina? e di cosa?

Niente di illegale, sorrise la Donna, è una pianta viola che fa dei bei fiorellini rosa. Rosa, come i capelli della ragazza alla quale arriverà, e che se ne è innamorata subito. Ora, la pianterà in un vaso  a Firenze e lì crescerà.

L'Impiegata della Posta non aveva mai sentito, fra bollette e francobolli, una storia più bella.
Dietro di lei, una pianta dalla foglie verdi e lucide.
- Anche io faccio questi esperimenti, le disse, la vede questa pianta? l'ho portata io dalla Riviera.
Così dicendo, si alzò e con delicatezza staccò un rametto dalla Pianta Verde.

- Tenga, disse alla Donna, pianti anche questa vicino alla sua pianta viola. Vedrà che soddisfazione.

La Donna col Vestito a Fiori ne fu meravigliata e felice.
 Mai le era capitato di uscire dall'ufficio postale con qualcosa di più che una ricevuta.
Quel giorno, aveva con sè un rametto di foglie verdine che presto avrebbe trovato posto sul suo terrazzo, e già pensava, attraversando al piazza, che tipo di vaso, se quadrato o tondo, e dove l'avrebbe collocata.

E si rese conto che gran parte delle sue piante avevano affrontati lunghi viaggi per arrivare fino a lei. Gliene aveva inviate Alice, dalla Sardegna, aveva trafugato un geranio in montagna, e pochi giorni fa aveva portato con sè un pò di Sicilia sottoforma di piantina del terrazzo di Mari.
E che la stessa piantina viola, capostipite di una vera e propria selva in un' altra casa e in un'altra Isola, era stata raccolta in un giardino abbandonato molti anni prima, a Capri.

Nessuna cosa al mondo succede per caso, ogni sentimento, ogni sorriso, ogni carezza, financo ogni pianto  sanno sempre da dove vengono e hanno sempre un posto esatto dove andare.
E ogni cosa cura e solleva, accarezza e stringe migliaia di persone, e passi e chilometri  e distanze e destini e storie.
Ogni cosa.
Anche le piantine.
Soprattutto quelle regalate, una mattina di luglio, all'Ufficio Postale.






22 novembre, 2016

Il Bruco Gilberto, che Amava la Nebbia

Da quanto fosse lì, nessuno lo sapeva.
Fu avvistato una mattina, sul mezzogiorno, quando la nebbia di fuori si er aun pò diradata, un pò, nemmeno tanto.

Bello non era.
Di un colore giallino, non era simpatico a nessuno degli abitanti del Pratino, tanto che aveva dovuto traslocare, giorni e giorni di viaggio, sui vasi di miseria del davanzale.
Il viola gli piaceva assai.

Se ne stava lì, accoccolato sulle foglie quasi stecchite della pianta più bella del mondo, quella di quel colore meraviglioso che gli abitanti della csa, soprattutto una, adoravano e mettevano ovunque, in ogni vaso, in ogni casa, ne regalavano talee e piccoli mazzi, ci facevano centrotavola, composizioni e cose.
Di lì a poco, la miseria intirizzita avrebbe lasciato il posto a dei ciclamini candidi o ad alcuni rami sberluccicanti, l''otto dicembre era prossimo e già si studiava come fare.

Il Bruco Gilberto era lì, tranquillo.
Era un bruco di buon cuore, alla fine, raffinato conoscitore di piante e foglie, forse ghiotto di basilico, ma di prove non ce n'erano ed il colpevole della morte del Basilico Rosso non fu trovato mai. Chi l'ha detto che dovesse proprio essere lui?

Il Bruco Gilberto amava la nebbia.
Per questo stava lì, accoccolato sulle foglie, forse dormiva o forse no, nessuno è capace di capire se un bruco dorma o meno, come si fa?  Ma quella mattina, sembrava proprio che ci stesse bene, al freddino e alla nebbia sottile del quasi mezzogiorno.
La nebbia è così bella se la guardi bene, luccica e avvolge, nasconde anche i pensieri più pesanti, e ti mostra solo quello che vuoi vedere davvero. Era questa, la filosofia del bruco.

e nonostante da ogni dove arrivassero cartoline di sole a picco su scogliere e balaustre, il Bruco Gilberto amava quel davanzale e quel vaso quasi stremato, quel paesaggio decadente e un pò magico, che gli faceva pensare che sì, era casa, nonostante tutto. E pur amando tanto quel sole dolce e quel mare azzurro, oggi era bello anche stare lì, nella nebbia.

Amo la nebbia come il Bruco Gilberto.
e amo il mare col sole languido che vi si specchia sopra.

Mi sa che un pò bruco sono anche io.





16 giugno, 2016

La Collezione di Pastelli Viola.

Ho una collezione di pastelli viola.

Qualcuno comprato, irresistibilmente. Quando vado in cartoleria per altro, esco sempre con le Bic Cristal d'oro e d'argento, e un pennarello o un pastello viola. Deve essere una patologia, non so.  Adesso, i pastelli  li vendono anche sciolti, non c’è bisogno di comprarne una scatola intera. ne basta uno, due al massimo,  Ne ho una quantità. Molti li ho sottratti dagli astucci delle elementari dei miei figli. Quelli che non sono dimenticati, intendo.

 Li tengo per me.
Sparsi nella borsa, sul tavolo, in mezzo al quaderno sul comodino, chi non cw l'ha, un quaderno a righe sul comodino, per scrivere prima di dormire o appena sveglia. Mi capita, ogni tanto. Quando sono tanto felice o tanto triste. A seconda.  Scrivo e scrivo. Incipit, capitoli di libri, sceneggiature brevissime.
Non rileggo mai.
Fra mille anni, ritroveranno il mio quadernino sul comodino e diventerà un best seller.
Ma i pastelli viola sono un’altra faccenda. Non li uso. Non coloro mai. Anche adesso che è diventato tendenza. Non coloro. Li guardo.

Li tempero ogni tanto, li rimetto a posto nel loro vasetto  trasparente, li metto in gradazione mentre parlo al telefono, per  concentrarmi o per distrarmi, chi lo sa, ma non li uso mai. Li guardo e basta.
Così come guardo i miei giorni di adesso, l’estate che non arriva, le cose che ho e quelle che non ho più, questi cieli impossibili che non sanno di caldo e di giugno, ma a me in fondo va strabene, io amo i temporali, le gocciolone sul terrazzo, i tuoni, i lampi, le saette nel cielo, l’odore dell’acqua, hai mai fato caso che il temporale ha un odore bellissimo. E poi, i temporali sono viola, lo sanno anche i sassi.
Guardo le cose mie come i pastelli viola del vaso, di marche diverse, alcuni quasi nuovi, alcuni usatissimi.
A volte mi viene voglia di usarli, di colorare le giornate che proprio non girano, di lilla chiaro, di viola intenso, di glicine tenero, di pervinca acceso. Niente. Non li tocco, li lascio lì. Ci sono cose che vanno lascaiate così come sono, perché non c’è una ragione né le puoi cambiare, né possono andare diverso da come vanno. Forse, nemmeno colorandole.

Guardo i miei pastelli come si guarda una mappa, meglio se di un tesoro nascosto da qualche parte che ancora non so dov’è, ma lo troverò presto,  ho questa sensazione, i tesori  si trovano sempre sulle spiagge e sono forzieri pieni di monete d’oro, e escono un poco dalla sabbia e tu hai la mappa in mano e dici, dieci passi di qua, sotto l’albero di là, scavi pochissimo ed eccolo lì.
Sono certa che il forziere sarà viola.

E se così non fosse, lo coloro io, che tanto, ho i pastelli.

09 giugno, 2016

Guardami.




Ho lasciato scorrere una quantità di giorni, di notti, di pomeriggi, di momenti belli, meno belli, di ansie tremende, di paure, di piccole felicità, quasi sottovoce, quasi a non volermi nemmeno rendere conto che il tempo passava e passava davvero, per forza.

Ho preparato viaggi, partenze e ritorni, vacanze, non tante in realtà, cene e pranzi della domenica, e merende, e apertivi, venite? Veniamo.

Ho provato a rendermi conto, a ripassare quel giorno, e i giorni prima, e ci ho pensato così tanto e così bene che sono riuscita a sentirmi ancora come quel giorno, Come accartocciata pronta ad esplodere, è così che ha mi ha fatto,  il dolore, quando una voce mi ha detto che dovevo essere forte, perché tu non c’eri più.

Ma come non ci sei più.

Con te dobbiamo fare una quantità di cose che non sta né in cielo né in terra, abbiamo ancora circa mille cene e un sacco di natali e la festa per il mio anniversario, e dobbiamo andare di nuovo a Londra, e ancora mille volte in vela ma stavolta senza tempesta e non più al Giglio, stavolta decido io e non mi importa se metti il muso, tanto il muso con me non lo hai messo mai, le volte che abbiamo litigato, circa tre, credo, siamo rimaste litigate un quarto d’ora, non c’è soddisfazione a litigare noi due.

Con te, Luisa ed io dobbiamo cucinare per capodanno e ballare il tango spostando il divano e tu che ridevi ma non sono sicura che ridessi solo così o se fossi anche un po’ sbronza, non sopportavi che il mio telefono continuasse a suonare, da allora ho tolto un sacco di cose e spesso tolgo anche la suoneria, anche se è del tutto inutile, oramai.

Con te dobbiamo ancora inaugurare quella casa così bella, devo ancora ricamarti una quantità di strofinacci, dimmi che canzone vuoi che ci scriva stavolta, e farti calze colorate e scialli e sciarpe, e il cappello per sciare che hai perso e quasi piangevi,  e lasciarti la mia borsa che ti piace un sacco, te ne do un’altra, quella piace a me, me la regali? Con te dobbiamo ancora parlare tanto, devo dirti tante di quelle cose che non sai, ti sei persa un anno intero di me, te ne sei andata senza salutare, senza dire, Eugi Andiamo, Che Sale La Nebbia,  senza dire niente.

Cosa hai pensato mentre volavi via, e da che parte sei passata, e cosa vedi da lassù, dalla nuvola dove ti sei seduta, le gambe incrociate e le Hawaianas che abbiamo comprato insieme, e quel costume viola che mi piaceva tanto, Hai Più Tette, mi dicevi, Non Ti Va.


Guardami Silvia, amica di tutta la mia vita o quasi, guarda giù, che ci hai lasciato tutti qui a cercarti dappertutto, e ad averti dappertutto, negli addobbi di Natale, negli armadi delle tovaglie, nella cornice con l’uccellino da dove adesso mi sorridi, ti ho messo davanti al lavandino e ogni tanto ti parlo e ti sorrido e mi viene da dirti che sei scema, e che mi manchi, mi manchi da morire, è solo un anno o diecimila, è solo un attimo o sono mille, Silvia, guardami, non mettere il muso se non andiamo dove vuoi tu, adesso resta qui che ho ancora così tanto bisogno del bene che mi vuoi, quello che ti voglio io è ancora qui, intatto e non sa dove andare, ho bisogno  di te che mi chiami Lau e mi dai sempre ragione con tutti, anche quando non ce l’ho, guardami  Silvia, lo so che non ti arrabbi, io e te non siamo mai riuscite  a litigare per davvero, ma tu, ovunque sei,  guardami, Silvia, guardami.


10 maggio, 2016

Senza colore.

Maggio sì.
Maggio coi boccioli delle rose, coi vasi che stanno avendo ora i fiori che le mie amiche hanno già da mesi.
Non sono brava con i fiori.
Oggi, non sono brava con niente.
Nemmeno ieri in realtà.
Ho iniziato cento volte un lavoro, disfatto, iniziato un'altra volta, sbagliato, iniziato di nuovo, strappato e buttato.
Ho scritto cento cose, cancellate, rifatte, ho tirato sù una riga, io scrivo a penna, spesso, non con la tastiera, che cancellare con la penna sembra di cancellare un pò di meno, è vero che cancelli ma quello che scrivi resta sempre lì e lo puoi rileggere, così, vedi come si legge ancora?

Piove.
Piove finissimo, un pò sì e un pò no.
Piove e non si riprende.
Piove che non si trova una soluzione, una risposta, un bel niente.
Per questo amo i temporali.
Che piove da maledetto e poi finisce.
Non questa roba qua, che non è niente di sicuro, un pò c'è e un pò no.

Che pioggia sei se nemmeno fai rumore sui vetri, che pioggia sei se bisogna guardare cento volte contro l'acero e dire, forse piove, forse no, e poi guardare per terra, goccioline che non significano  niente, solo che hai lasciato fuori le lenzuola e sono inzuppate e lì resteranno perchè non hai nemmeno voglia di ritirarle le sciacquerò di nuovo, e chemmimportammè.

Ho voglia di colori, invece di questo cielo scemo che non sa nemmeno lui che cosa sia, se viola o grigio e lillino, no, lillino no, mi piacerebbe e invece è questo colore che non sai dire, se glielo chiedo, non lo sa nemmeno lui.

Di che colore sei cielo stamattina, coraggio, dimmelo tu, rispondimi, trova un senso alle cose che non so, alle risposte che non so dare, ma forse, le domande che non hanno risposta non vale nemmeno la pena farsele, o no?

Di che colore sei, cielo senza nuvole, che sei tutto uniforme e piatto e noioso, noioso come quei giorni che non passano mai, fra documenti e cose, fra i letti disfatti e la polvere e le ragnatele dell'ingresso, come se i ragni si fossero svegliati tutti adesso, e tutti qui. Io non uccido i ragni, li accompagno con grazia verso l'uscita, forse è per quello che a volta trovo costruzioni finissime di alto design.
Ma sempre ragnatele sono.

Ho voglia di colori, del blù del mare aperto, il candore delle vele, voglio il cobalto del cielo, il rosso di un tramonto infuocato su un'isola, voglio colori a manciate, pennelli diversi che colorino i miei pensieri che oggi sono di tutte le tonalità possibili dell'indaco e del niente, voglio pastelli temperati per colorare questo dieci di maggio che di maggio non ha niente se non il nome sul calendario, sono brava a colorare, non esco dai bordi, coloro concentrata e con mano leggerissima, e anche un paesaggio a matita diventa un'esplosione di colori lucenti.

Ma niente, non ho vernice, non ho pastelli, non ho niente di niente, solo il grigio del cielo, questa pioggia cretina come me che piove sulle prime rose dell'aiuola.

Il cielo resta lì, nel suo grigio impossibile, nel suo silenzio e nel suo mistero.

e io lo guardo senza fare niente, in un dieci di maggio che non ha alcun significato, che non ho nemmeno un pastello, nemmeno un colore, che un pò piove e un pò no.








02 novembre, 2015

Il Vestito di Pizzo.

Non erano gran giorni, quelli.
Il sole sì, una leggerezza sottile, si sorprendeva a cantare sottovoce, riordinando un cassetto, togliendo le foglie secche a tutte quelle piante viola del davanzale, avrebbe dovuto metterle al riparo, non avrebbero resistito al gelo del'inverno.

Erano giorni pesanti, con sforzi giganti per uscirne fuori, e grandi soddisfazioni nel vedere che sorriso chiamava risata, che leggerezza chiamava divertimento.

Era un pomeriggio faticoso, quello.
C'erano ricordi a schiacciarla, una solitudine più marcata, un magone fortissimo, di singhiozzi soffocati, quelli che proprio non trattieni, la certezza che proprio da lì non si sarebbe tornati indietro. La consapevolezza.

Aveva un abito di pizzo nell'armadio.
Lo aveva indossato a una festa, dove aveva ballato e riso, riso e ballato e cantato e riso, e ancora riso, tanto fino alle lacrime, che belle sono le donne che ridono e si sfanno il trucco, e tentanto di ricomporsi mente ancora ridono e ridono.

In quel pomeriggio difficile, ebbe voglia di ritrovare quella risata.
Aprì lentamente l'armadio, quello dei vestiti belli, dei vestiti delle feste, quello più in alto.
Il vestito di pizzo era lì, allineato accanto all'abito da sposa, ai vestitini belli delle comunioni, all'abito nero dei 40 anni.

Lo indossò e si guardò allo specchio. Certo, con le calze a righe, i capelli sfatti e quella faccia grigia da domenica pomeriggio non aveva lo stesso effetto.
Forse, tirava un pò sui fianchi, ma si fece una smorfia, un giro su se stessa, la gonna a ruota volò e volò, improvvisò una danza, una faccia da copertina, un pò da scema.

Immaginò ancora quella volta e quella festa, a chiudere gli occhi ne sentiva la musica, le voci di sottofondo, fotogrammi perfetti, c'era questo e c'era quello. E c'era lei.


Ridicola, nella cabina armadio, coi calzettoni  a righe un pò scesi e quell'improbabile abito di pizzo, finalmente si sorrise, sentendo su di sè un altro sorriso, da Dovunque Fosse.

Il Vestito di Pizzo tornò nell'armadio in alto, quello dei vestiti belli.
Ogni volta che vorrò ritrovarti, lo indosserò.






16 luglio, 2015

L'Imperdibile Concerto delle Pettegole Cicale.

Dove abitassero esattamente, nessuno lo aveva mai saputo.

Forse nel Grano Laggiù, o nella Siepe Vicina, proprio dietro alla Regia Salvia.

Quel che era certo, era che fossero tante, tantissime.

Iniziavano a cantare ad ogni ora del giorno, soprattutto nel primo pomeriggio, nel sole a picco dei pomeriggi di quello stupido luglio.

Si era provato una volta, a raccontare una storia alle cicale, per farle smetterle, per zittirle, una volta per tutte. Niente da fare. Quelle, zitte non ci stavano mai.

Quella mattina poi, l'assordante frinire che arrivava dal giardino era particolarmente insistente, più forte di sempre.

Si avvicinò un pò di più al Pratino.
Forse, hanno qualcosa da dirmi, pensò.
Ma cosa potevano avere mai, da dire, uno stuolo di cicale chiacchierone, a una tipa scalza in camicia da notte, scarmigliata e nemmeno ancora tanto sveglia, che esaminava con fare saccente il Basilico Rinato e la crescita miracolosa di  tutte quelle piantine con le quali aveva riempito il terrazzo?
Fu presto detto.

Le cicale, si sa, sono esserini pettegoli e sanno tutto di tutti.
per esempio, avevano saputo per prime la notizia del trasloco delle lumache, sapevano che quell'anno la casa viola degli  uccellini era rimasta sfitta, e la sapevano lunga sull'amore impossibile tra il ciliegio e il gelsomino.
ma c'era dell'altro.

In quel frinire continuo, in quelle due note ripetute all'infinito, per ore ed ore, c'era di più.

A starle a sentire, le cicale del pratino raccomandavano prudenza.
Invitavano alla calma, a fare le cose con studiata lentezza, a pensare molto bene prima di provare a stare male, a lamentarsi, a frignare e a dire, AhPoveraMe. Suggerivano altresì di fare un giro al fiume, o al MareVicino, di fare un giro da Feltrinelli per scegliere almeno due libri, da leggere con gusto e meraviglia, all'imbrunire, magari proprio sotto al ciliegio, o sul divano di casa, certamente più fresco ma infinitamente meno poetico. E infine, acquistare un profumo buono col sapore dell'estate, potendo decidere fra Pompelmo o Anice, che non era cosa da poco.

le cicale son del mestiere.

Loro cantano, cantano e cantano, nessuno si cura se stanno bene oppure no, se sono felici o no, se hanno il cuore leggero e colorato  o dolorante e in mille pezzi piccolissimi che raccogli solo con la scopa e la paletta. 
Nessuno si cura di loro.
Loro son quelle che cantano, fan questo da sempre, e nessuno al mondo mai si chiede, Già, Ma le Cicale?

Per questo, decido di seguire i loro consigli preziosi, e farò tutto, o quasi, quello che mi dicono, quello che ho sentito questa mattina presto, che ho individuato  in quel frinire insistente, io col caffè in mano a guardare soddisfatta e piena d'orgoglio i fiorini rosa nel vaso della miseria.

Le cicale san tutto di tutti, e seppur pettegole, dispensano consigli pieni di saggezza.

Ascolto le cicale che la sanno lunga.
Che sanno molto di me.
Che son cicala pure io.


29 giugno, 2015

A Mali Estremi.

La decisione era stata presa nottetempo.
Le lumache del Regio Giardino andavano sterminate.

E sì, era stata una decisione più che sofferta, e sì che ci si era a lungo rigirate nel letto, ancorchè coi cuscini profumatissimi di Lavanda e Camomilla, dacchè l'AmicaDellePerle aveva avuto un pensiero delizioso.
E sì che ci si era a lungo lambiccati il cervello sul come e sul dove.
Ma alla fine, si era deciso.

Da qualche tempo infatti, sul terrazzo di casa, accanto ai vasi rigogliosissimi di basilico sia verde che viola, si notava che qualcosa non andava.
Rigogliosissimo era ancora, ma le foglioline alla base, quelle più tenere e delicate, erano praticamente sparite, rosicchiate da entità sconosciute.

In Giardino, tutti sapevano ma nessuno parlava.
Si sapeva molto bene infatti che la colpa di tale scempio era sua, della Lumaca Lia e di quella buontempona della cugina Gisella, quest'ultima così amante delle mondanità  e del tirar tardi, che organizzava veri e propri party con gli amici suoi, invitandoli anche dai giardini vicini, Stasera, Basilico Party al Giardino dei Bert.

Non c'era quindi un solo minuto da perdere.

Qualche giorno prima, la Scrivente, aveva avuto un moto di stizza presso la casa dell' Amica della Pastiera, nel constatare che quel ciotolone di basilico, fra le piante grasse e le ortensie, non solo era profumatissimo, rigogliosissimo e verdissimo, ma non aveva neppure una fogliolina  rosicchiata.

Mostrandosi indifferente, Ella chiese lumi, e la sua Amica le regalò con fare circospetto due graziose pagodine, di un bel verde smeraldo, Non Hai Che Da Riempirle Della Pozione, le disse, E In Un Baleno Ti Sarei Liberata delle Lumache.

Col cuore stretto, ma decisa nel suo intento, si recò ad acquistare la Pozione.
Non fu un percorso facile, si pentì, si ripentì, poi si pentì di essersi pentita.
Dopotutto le Lumache erano amiche sue, fino ad allora non avevano fatto male a nessuno, se non quella volta dello sterminio dei cavoli nel Regio Orto.
Insomma, erano adorabili bestiole, financo simpatiche, a modo loro.

Ma stavolta, Lia e Gisella l'avevano fatta grossa, banchettando senza ritegno sul Regio Terrazzo.La Scrivente era diventata malvagia e insofferente.
 Le lumache meritavano una punizione esemplare.

Il Basilico ne avrebbe guadagnato in bellezza, 
Le viscide bestiole, con appartamento al seguito,  avrebbero traslocato in altri giardini e i loro Happy Hour si sarebbero svolti in altre ciotole, in altri vasi, insomma lontano.

Ben presto la notizia si sparse per tutto il Giardino, arrivando anche a Lia e Gisella.

Toh Guarda, disse Lia, col suo fare indolente, Per la Festa di Domani Sera Ci hanno Messo Pure l'Ombrellone.

Nessuno al mondo sa quanto stolte siano le lumache.





Odore di dicembre.

  Che non è pino, non è neve, non è gelo, non è niente. Non c'è dicembre in questi giorni, non c'è niente del genere, non ci sono le...